L'articolo di Alfonso Navarra, propedeutico a un dossier sulle armi biologiche, e' corredato da interventi e altro materiale:
- Emilio Bibini (commento)
- Bullettin of Atomic Scientists
- Mirko Molteni su Analisi Difesa
- Ernesto Burgio su Mosaico di pace del luglio 2010
- Alessandro Pascolini su Odissea (16 aprile 2020)
Coronavirus: gli “untori” non sono i cinesi o gli americani. E' proprio Gaia che si sta vendicando…
Piccola riflessione contro la facile ricerca di capri espiatori per il collasso della civiltà del malsviluppo
Di Alfonso Navarra
Premessa: conosci il “nemico"
“Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.”
Questa e’ una citazione tratta da “L’arte della guerra” di Sun Tzu. Riferita alla “lotta” contro il Coronavirus mutato della pandemia in corso ci porta subito alle seguenti considerazioni. Gia’ questo “nemico” lo conosciamo poco, anzi per nulla: saremmo proprio fritti se andassimo a equivocare sin da subito sulle sue origini e la sua natura partendo non da dati scientifici ma da speculazioni fantasiose su chi possa averlo messo in circolazione con una manipolazione genetica. Che e’ a ben vedere una operazione rassicurante: una entità umana, per quanto perversa, controlla questo “nemico” e lo usa come arma per vincere una sua guerra: quindi lo gestisce in modo razionale e ha gia’ i mezzi per difendersene (il vaccino nel cassetto?). Da un certo punto di vista, magari fosse cosi’! A nemico chiaro, soluzione semplice…
Non e’ che la guerra biologica, al pari di altre diavolerie, armi atomiche in primis, non sia coltivata dalle potenze militari ovviamente nell’ufficialità per “scopi difensivi”, visto che tali armi sono proibite per il diritto internazionale. Ma, per quelle che sono le conoscenze di cui disponiamo, e anche facendo un ragionamento di buon senso, oggi non ha nessun senso strategico sostenere che il tipo di coronavirus mutato oggi in circolazione, e causa della covid19, sia stato creato in provetta. E meno che mai che - tanto per cambiare - gli “americani”, i “cattivi imperialisti”, lo abbiano volontariamente buttato tra i piedi dei cinesi, per mettere a terra la potenza avversaria, guarda caso proprio a Wuhan, dove esiste il più importante centro di ricerca biologico in Cina, tra l’altro collegato alla Organizzazione Mondiale della Sanita’. Un minimo di frequentazione dei manuali di geopolitica e di strategia ce lo può ribadire: una grande potenza non attacca un’altra grande potenza con un’arma biologica: poco ma sicuro. Nemmeno se avesse gia’ il famoso vaccino in tasca per evitare diffusioni boomerang degli agenti patogeni che ha sparso. Una grande potenza non commette un atto di guerra grave contro un’altra grande potenza con piccoli sotterfugi sperando di farla franca a gratis. Ha tanti altri modi molto piu’ razionali e diretti per perseguire le sue mire egemoniche. Perché produrre degli effetti distruttivi dubbi o scarsi, quando non, appunto, boomerang, per ottenere in cambio quasi certo che la controparte attui una ritorsione sicura, più intelligente e efficace? L’arma biologica, allo stadio attuale della nostra evoluzione tecnologica, e’ del tutto fallimentare dal punto di vista bellico, in quanto a tutt’oggi inaffidabile, ed e’ buona essenzialmente come spauracchio per contribuire a veicolare una strategia di militarizzazione della sfera pubblica (spesso collegata ai profitti delle grandi aziende tecno-farmaceutiche).
In altra sede ci soffermeremo più ampiamente su questo tipo di ragionamenti logico-strategici, che nascono, ripetiamolo, anche dalla conoscenza, sommaria ma sufficiente, delle linee di impiego strategiche delle armi batteriologiche, spacciate come difesa dalle medesime.
Il parere dei tecnici: il virus non e’ stato creato in laboratorio
Se si parte invece dall’esame di dati più tecnici, pare che anche su questo versante potremmo chiudere senza grandi dubbi la discussione. L’ipotesi dell’origine naturale del ceppo virale che ha condotto all’attuale pandemia sarebbe stata appena confermata in modo definitivo nel momento in cui scriviamo. Il coronavirus, secondo uno studio pubblicato su Nature Medicine, avrebbe infatti nel suo tracciato costitutivo chiare prove che ne attesterebbero la derivazione dai ceppi virali simili precedentemente identificati.(L’articolo al link: https://www.nature.com/articles/s41591-020-0820-9?fbclid=IwAR0ckHMFWkkxVzgRtyqzbHrFYMg8heqAoAuPPd5nws9dYByiwlFm23UpFPE)
Siccome non siamo esperti del ramo, e non possiamo improvvisarci tali su due piedi (anche se da decenni bazzichiamo nell’attivismo disarmista che, con esperti critici, Gianni Tamino tanto per fare un nome, sue competenze critiche ne ha sviluppate) forse, come fa il Bullettin of Atomic Scientists americano, possiamo ancora concedere qualche spiraglio a favore della tesi dell'incidente - in Cina, non negli USA! - su un lavoro comunque sporco, anche se non collegato alla preparazione di armi da guerra biologiche.
Sul versante del “virus cinese”, come lo definisce Trump, sui social ora impazza un vecchio servizio del TG Leonardo su esperimenti in Cina. Il 16 novembre 2015 Maurizio Menicucci da’ la notizia di una “chimera” realizzata a Wuhan.
“Un gruppo di studio ha prodotto un organismo modificato innestando una proteina superficiale di un coronavirus trovato nei pipistrelli su un virus che provoca la SARS, la polmonite acuta, anche se in forma non mortale, nei topi”. “Si sospettava - prosegue Menicucci - che la proteina potesse rendere l’ibrido adatto a colpire l’uomo e l’esperimento lo ha confermato. Ed e’ proprio questa molecola detta Shco14 che permette al coronavirus di attaccarsi alle nostre cellule respiratorie scatenando la sindrome. Secondo i ricercatori l’organismo, quello originale e a maggior ragione quello ingegnerizzato, puo’ contagiare l’uomo direttamente dai pipistrelli senza passare da una specie intermedia come il topo. Ed e’ appunto questa eventualita’ a sollevare molte polemiche”.
Il servizio del 2015 rappresenta una occasione ghiotta per i vari Napalm51 che non vi e’ dubbio se ne abbevereranno a lungo. Nonostante la risposta immediata della stessa RAI: “Il servizio andato in onda sulla rubrica Leonardo e’ tratto da una pubblicazione della rivista Nature. E proprio tre giorni fa la stessa rivista ha chiarito che il virus di cui parla il servizio, creato in laboratorio, non ha alcuna relazione con il virus naturale Covid19”. Parole ribadite a Rainews24 dal professor Enrico Bucci, epidemiologo e docente alla Templey University (USA): “Il Covid19 non e’ lo stesso virus creato in laboratorio dai cinesi nel 2015. Il virus del 2015 non aveva capacita’ epidemica. Inoltre e’ indubbio che il Covid19 non e’ stato creato in laboratorio ma e’ frutto di una selezione naturale".
Altra smentita e’ quella del virologo Roberto Burloni che su Twitter scrive: “L'ultima scemenza è la derivazione del coronavirus da un esperimento di laboratorio. Tranquilli, è naturale al 100%, purtroppo”. (Si vada su: https://www.agi.it/cronaca/news/2020-03-25/coronavirus-tg-leonardo-7861064/)
Passando a Repubblica del 26 marzo 2020, nella rubrica “Vero o Falso”, dedicata alle fake news, Riccardo Luna cita il professor Burioni: “Chiunque sappia di filogenesi virale e sappia quindi interpretare un albero di analisi comparativo puo’ escludere che il virus che circola sia derivato da un esperimento”.
Sul Corriere della Sera della stessa data di giovedì 26 marzo 2020 troviamo le ulteriori spiegazioni della curatrice del TGR Leonardo Silvia Rosa Brusin: “Il pezzo del 2015 si riferiva ad un esperimento fatto con fondi americani e cinesi che avrebbe dovuto essere un avvertimento per il mondo. Tra i due virus non c’e’ parentela”. Quindi si fa intervenire Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità : ”Tutti i gruppi di ricerca scientifica internazionali hanno condiviso le sequenze genetiche dei ceppi isolati e non e’ mai stato ipotizzato lo scenario (della mano dell’uomo)”. E sempre in riferimento allo studio di Nature Medicine del 17 marzo: “Proprio per ricostruire la storia (del nuovo virus che sta sconvolgendo il mondo) i ricercatori insistono che sarà fondamentale identificare l’ospite intermedio tra il pipistrello e l’uomo… Non vengono ritenute plausibili le ipotesi che a fare da ospite intermedio siano stati il serpente e il pangolino. Il veicolo della SARS sembra sia stato lo zibetto. Quello della MERS, altra polmonite da coronavirus diffusa nella penisola arabica, il cammello”. E sempre sulla stessa pagina del Corriere si riferisce la presa di posizione della rivista ScitechDaily a firma dello Scrips Institute di Virologia. Il titolo dice tutto: “Nessuna evidenza che il coronavirus di covid19 sia il risultato dell’ingegneria genetica di laboratorio. L’epidemia ha una origine naturale”.
L’ipotesi dell’incidente nel laboratorio cinese
Su il Fatto Quotidiano del 27 marzo 2020, con un articolo a firma di Laura Margottini, si riportano i dubbi del Bullettin of Atomis Scientists sulla sicurezza del sito scientifico di Wuhan.
(Sotto riportiamo il più recente articolo del Bullettin).
Il Bullettin, con l’esperto Richard Ebright, concorda con i massimi esperti internazionali di biosicurezza che SARSCOV2 non sia stato manipolato in laboratorio allo scopo di creare un’arma biologica, ma non esclude la fuoriuscita accidentale da materiale organico mal gestito.
A Wuhan i centri di ricerca hanno un basso livello di sicurezza: BSL-2 non BSL-4 (la definizione dei livelli e’ stata messa a punto dal CDC di Atlanta).
Non sarebbero quindi adeguati ai rischi che con i loro esperimenti stanno correndo.
Leggiamo quanto scrive la Margottini:
“L’articolo di Nature Medicine, sostiene Ebright, offre una base solida per escludere che il virus sia stato creato di proposito in laboratorio, ma non puo’ altrettanto escludere che un progenitore del SARSCOV2 sia stato fatto evolvere su cellule umane nel tempo e che possa essere sfuggito nell’ambiente a causa di un incidente”.
Infine la Margottini cita Thomas Gallagher, virologo alla Loyola University di Chicago, che invece respinge l’idea che la pandemia potrebbe avere origine da un incidente di laboratorio.
“Gli autori dello studio di Nature sostengono che la SARSCOV2 e’ nata negli animali, non in un laboratorio di ricerca. E l’ipotesi che sia fuoriuscito da un laboratorio e’ indifendibile”.
La Margottini conclude: “L’argomento non può essere considerato chiuso senza ulteriori approfondimenti. Tracciare l’origine dell’epidemia e’ importante tanto quanto trovare cure e vaccini contro il Covid19”.
(Si vada su:
Aggiungiamo noi: al limite, anche se questo disgraziato evento dello scienziato cinese che inciampando “alla Fantozzi o alla Crozza” avesse fatto cadere e rompere una provetta con il virus fosse avvenuto, bisognerebbe pur sempre prendere atto che qualche folle della nostra specie, al servizio della logica della potenza, ha soggiaciuto ad un impulso di presunzione e onnipotenza, al punto da avviare una mirata contaminazione sui suoi simili. Una operazione (americana o cinese o di quanti altri: importa davvero?) che sarebbe con ogni evidenza sfuggita dal controllo dei fautori e della quale la natura si e' appropriata per dare a tutti gli esseri umani una sonora lezione. E succede come sempre che a farne le spese sono e saranno i più deboli e meno colpevoli rispetto a chi ha volontariamente innescato il meccanismo…
La vendetta di Gaia
Pensiamo che si debba finirla con la ricerca di facili capri espiatori siano essi cinesi, americani, o quanti altri. Per un motivo semplicissimo: gli untori, in un certo senso, siamo tutti noi! Con responsabilità differenziate, e’ ovvio, perché l’élite dell’1% ha organizzato il sistema e ne gode (si fa per dire: l’alienazione dell’egocentrismo lascia sempre l’amaro in bocca di appagamenti vuoti) i principali vantaggi. Ma i piu’ oggi guardano ad essa, con il consumismo praticato e desiderato, come a un modello culturale da imitare. L’equipaggio non si ammutina ed anzi guarda con ammirazione i comandanti condividendo i loro valori.
Persino i poveri che vivono sotto i ponti, per lo più, hanno lo stesso sogno di felicità di un Berlusconi!
Le eccezioni al momento sono minoritarie ed anche con le idee abbastanza confuse. Almeno cosi' mi appare la situazione (e spero che il mio pessimismo sia presto smentito).
Siamo quindi noi che , al timone della barca, come equipaggio di supporto o nella stiva come rematori, stiamo attaccando gli equilibri dell’ecosistema che ci ha creati (ecco il concetto della terrestrita’ sviluppato come formula originale dal sottoscritto sulla base di una idea originaria di Edgar Morin) e che quindi dobbiamo a questo punto aspettarci la logica e spietata risposta di Gaia per ripristinarli. Non come espressione di una volontà deliberata ma perché i sistemi tendono spontaneamente a mantenere il loro equilibrio.
La relazione tra la pandemia e le profonde trasformazioni che il Pianeta sta subendo sono l’oggetto di una intervista rilasciata dal professor Gianni Tamino sul Manifesto del 26 marzo 2020.Titolo: “Il virus e’ la malattia del pianeta stressato”. Gianni Tamino e’ docente di biologia generale all’università di Padova. Tamino e’ un sostenitore della “decrescita” e lo si capisce chiaramente dalle risposte che da’ all’intervistatore Francesco Bilotta.(L’intervista di Francesco Bilotta a Gianni Tamino si trova al link: https://ilmanifesto.it/il-virus-e-la-malattia-del-pianeta-stressato/)
In breve, secondo Gianni Tamino, bisogna pensare al Covid19 come a “una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta… Per arginare (questa e le) future epidemie dobbiamo modificare il nostro rapporto con l’ambiente, ma anche potenziare le strutture sanitarie pubbliche che vengono smantellate in tutti i paesi”.
La soluzione e’ ancorata alla terrestrita’
Come ci suggeriscono le spiegazioni di Gianni Tamino, quando pensiamo all’emergenza sanitaria da Covid19 non dovremmo rifarci principalmente alle beghe geopolitiche, alla caccia all’untore cinese o americano, a chi sta meglio e furbescamente manovrando sporco per soggiogare il mondo. Dovremmo invece soffermarci e meditare sulle varie emergenze ecologiche, sull’intreccio tra emergenza climatica e nucleare nel loro rapporto con la disuguaglianza sociale. Tutte queste emergenze sono radicate in un modello sociale guidato da una visione del mondo meccanicistica, militaristica, antropocentrica in cui l’essere umano si colloca da dominatore separato rispetto alla comunita’ dei viventi e in cui si persegue una accumulazione senza limiti di potere e di ricchezza.
Le infezioni passano dagli animali all’uomo perché devastiamo e distruggiamo l’habitat delle specie selvatiche, sconvolgendo l’equilibrio tra gli animali e i micro-organismi come i batteri e i virus.
La stabilita’ ecologica globale del pianeta: questa e’ la condizione che dobbiamo ripristinare se vogliamo veramente uscire anche dall’emergenza sanitaria contrapponendo alla globalizzazione, appunto, la terrestrita’. Che significa comunicazione universale ma ritorno al locale delle attività produttive e di consumo rese ecologicamente compatibili: cosi’ si tutela la salute e si riduce l’impronta ecologica lasciando spazio alla diversità di specie, culture ed economie.
Si pensi al solo settore agro-alimentare come lo inquadra l’ecofemminista Vandana Shiva e a come lei proponga delle soluzioni all’insegna del rispetto della Madre Terra, cui l’uomo appartiene: “La crisi del coronavirus deve diventare l’occasione per fermare i processi che minano la nostra salute e quella del pianeta e per avviare invece un processo che le rigeneri entrambe”. (Vandana Shiva sul Manifesto del 26 marzo 2020: Sistema malato, la lezione del coronavirus. Articolo rinvenibile alla URL: https://ilmanifesto.it/sistema-malato-la-lezione-del-coronavirus/).
E’ quanto proponiamo da disarmisti esigenti, convinti che disarmo, ecologia e giustizia sociale siano un’unica lotta internazionale.
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Commento e integrazione di Emilio Bibini (www.psichenatura.it)
Se si parla della "Vendetta di Gaia" penso non si debba tralasciare una delle cause ecologiche più importanti che hanno determinato la maggior parte delle pandemie: il rapporto animale - uomo (zoonosi), in special modo in quello del settore alimentare attraverso gli allevamenti intensivi (anche ittici) che determinano la maggior parte dei problemi ambientali, di salute e di sofferenza per i non-umani non solo in Asia, ma anche in Europa e in Italia.
Dunque uno degli assunti principali per evitare pandemie virali è quello di modificare l' alimentazione degli umani a livello mondiale.
La Cina e l'Asia, con le loro "pseudo-tradizioni" alimentari dove mangiano "praticamente di tutto", unite alla scarsità di condizioni igieniche, e alla sovra-popolazione (altro problema mondiale tabù che pochi osano affrontare) sono responsabil,i dal dopoguerra in po, della maggior parte delle pandemie virali! Tralascio le "pseudo tradizioni mediche" che contribuiscono all'estinzione di molte specie animali in Africa e il bracconaggio.
Guardate qui:
Le pandemie influenzali nel ventesimo secolo. La timeline dell’Organizzazione mondiale della sanità
COVID-19 e altri virus: l’elemento in comune è lo sfruttamento degli animali e del pianeta
Perché i virus nascono in Cina
https://scienze.fanpage.it/perche-i-virus-nascono-in-cina/
Aviaria negli allevamenti europei: quel che c'è da sapere
https://www.focus.it/scienza/salute/aviaria-negli-allevamenti-europei-quel-che-ce-da-sapere
"Allevamenti intensivi incubatori di virus"la denuncia di Legambiente e veterinari
L’epidemia di peste suina in Cina è un disastro
https://www.ilpost.it/2019/06/06/epidemia-peste-suina-cina/
Encefalo-retinopatia virale, una minaccia emergente per l’allevamento di orate
ttps://www.izsvenezie.it/encefalo-retinopatia-virale-minaccia-emergente-orate/
Virus di Schmallenberg, trovato in allevamenti francesi e tedeschi
Concludendo la "soluzione è ancora terrestre" sì, ma anche con il veganesino!
Post scriptum
A sostegno di quanto ho e viene affermato dai movimenti animalisti , antispecisti e antinatalisti:
Programma su Rai 3 in prima serata, oggi 29 marzo
servizio su Rai Tre crudo e senza mezzi termini.1_Distruzione habitat allevamenti intensivi.2_Mancanza di rispetto per gli animali selvatici.3_Quasi tutte le zoonosi sono state colpa dell'uomo che ha fatto da amplificatore con il suoi allevamenti intensivi.4_Ogni 4 mesi una nuova malattia emerge!5_Quasi sempre corona virus.6_Sempre in Asia fra Cina ed india sud est asiatico.7_Servizio molto duro e senza mezze frasi
8_Più facile dare la colpa ad un virus sfuggito da un laboratorio che dover pensare che è colpa delle nostre abitudini alimentari9_Tutte le viremie dell'ultimo secolo passate da animali selvatici ad allevamenti intensivi all'uomo.10_I grandi allevamenti di Cina e India ed altri.11_Le catene di montaggio dei macelli.
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Di seguito del materiale relativo alla discussione: virus naturale o creato in laboratorio?
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https://thebullettin.org/tag/coronavirus
CORONAVIRUS
The Novel Coronavirus (2019-nCoV) is a respiratory illness first identified in Wuhan City, China. Symptoms include fever, cough, and shortness of breath. The virus can be spread person-to-person in close proximity or from contact with contaminated surfaces.
The World Health Organization (WHO) has declared the coronavirus outbreak a pandemic and has named the disease caused by the virus COVID-19. It is related to other coronaviruses such as SARS and MERS, but is not the same virus.
“The virus enters the body through the nose, mouth or eyes, then attaches to cells in the airways that produce a protein called ACE2,” according to the New York Times in its explainer “How Coronavirus Hijacks Your Cells.”
Infection by COVID-19 is rarely fatal, according to the WHO.
“It can be more severe for some persons and can lead to pneumonia or breathing difficulties,” reads a statement on WHO’s website. “Older people, and people with pre-existing medical conditions (such as, diabetes and heart disease) appear to be more vulnerable to becoming severely ill with the virus.”
On February 13, 2020, the known worldwide death toll was being reported as “at least 1,357,” with more than 60,000 confirmed cases (see below for recent numbers).
In March, large gatherings such as Austin’s SXSW, Rome’s marathon and St. Patrick’s Day parades in Chicago, Dublin and Boston were cancelled. Students were sent home early or classes went online at MIT, Harvard University and Cornell University.
On March 11, 2020, WHO declared the coronavirus outbreak a pandemic, with 118,000 cases in 114 countries, and 4,291 fatalities.
“The WHO had not declared a pandemic since 2009,” according to the New York Times, “when it gave that designation to a new strain of H1N1 influenza.” (The CDC estimated that between 151,700 and 575,400 people worldwide died from H1N1.)
Notable figures infected with the virus include Oscar-winner Tom Hanks, the UK’s Prince Charles, actor Idris Elba and US Senator Rand Paul. On March 24, Tony Award-winning playwright Terrence McNally (Kiss of the Spider Woman) died of complications from COVID-19.
On March 24, the 2020 summer Olympics in Japan were postponed.
As of March 25, worldwide cases were being reported as 438,100 people infected with the virus, with a death toll of at least 19,641. In the US, there were 59,502 known cases, according to a New York Times database, and at least 804 deaths due to the pandemic.
The Bulletin of the Atomic Scientists publishes stories about nuclear risk, climate change, and disruptive technologies. The Bulletin also is the nonprofit behind the iconic Doomsday Clock.
Experts know the new coronavirus is not a bioweapon. They disagree on whether it could have leaked from a research lab
By Matt Field, March 25, 2020
Much remains uncertain about the new coronavirus. What treatments will prove effective against COVID-19? When will a vaccine for the disease be ready? What level of social distancing will be required to tame the outbreak, and how long will it need to last? Will outbreaks come in waves? Amid all these vital forward-looking questions remains a more retrospective but still important one: Where did SARS-CoV-2, the virus that causes COVID-19, come from in the first place? Experts seem to agree it wasn’t the product of human engineering. Much research has been focused on the hypothesis that bats passed a virus to some intermediate host—perhaps pangolins, scaly ant-eating mammals—which subsequently passed it to humans. But the pangolin theory has not been conclusively proven. Some experts wonder whether a virus under study at a lab could have been accidentally released, something that’s happened in the past.
Among the latest entrants to the debate about the provenance of SARS-CoV-2 are the authors of a March 17 Nature Medicine piece that takes a look at the virus’s characteristics—including the sites on the virus that allow it to bind to human cells. They looked at whether the virus was engineered by humans and present what appears to be convincing evidence it was not. They also considered the possibility that the outbreak could have resulted from an inadvertent lab release of a virus under study but concluded “we do not believe that any type of laboratory-based scenario is plausible.”
Not all experts agree.
Professor Richard Ebright of Rutgers University’s Waksman Institute of Microbiology, a biosecurity expert who has been speaking out on lab safety since the early 2000s, does agree with the Nature Medicine authors’ argument that the new coronavirus wasn’t purposefully manipulated by humans, calling their arguments on this score strong. Ebright helped The Washington Post debunk a claim that the COVID-19 outbreak can somehow be tied to bioweapons activity, a conspiracy theory that’s been promoted or endorsed by the likes of US Sen. Tom Cotton, Iran’s supreme leader, a high-ranking Chinese government official, and others.
But Ebright thinks that it is possible the COVID-19 pandemic started as an accidental release from a laboratory such as one of the two in Wuhan that are known to have been studying bat coronaviruses.
Except for SARS-CoV and MERS-CoV, two deadly viruses that have caused outbreaks in the past, coronaviruses have been studied at laboratories that are labelled as operating at a moderate biosafety level known as BSL-2, Ebright says. And, he says, bat coronaviruses have been studied at such labs in and around Wuhan, China, where the new coronavirus first emerged. “As a result,” Ebright says, “bat coronaviruses at Wuhan [Center for Disease Control] and Wuhan Institute of Virology routinely were collected and studied at BSL-2, which provides only minimal protections against infection of lab workers.”
Higher safety-level labs would be appropriate for a virus with the characteristics of the new coronavirus causing the current pandemic. “Virus collection, culture, isolation, or animal infection at BSL-2 with a virus having the transmission characteristics of the outbreak virus would pose substantial risk of infection of a lab worker, and from the lab worker, the public,” Ebright says.
Ebright points out that scientists in Wuhan have collected and publicized a bat coronavirus called RaTG13, one that is 96 percent genetically similar to SARS-CoV-2. The Nature Medicine authors are arguing “against the hypothesis that the published, lab-collected, lab-stored bat coronavirus RaTG13 could be a proximal progenitor of the outbreak virus.” But, Ebright says, the authors relied on assumptions about when the viral ancestor of SARS-CoV-2 jumped to humans; how fast it evolved before that; how fast it evolved as it adapted to humans; and the possibility that that the virus may have mutated in cell cultures or experimental animals inside a lab.
The Nature Medicine authors “leave us where we were before: with a basis to rule out [a coronavirus that is] a lab construct, but no basis to rule out a lab accident,” Ebright says.
Yanzhong Huang, a senior fellow for Global Health at the Council on Foreign Relations, recently wrote an article for Foreign Affairs that is dismissive of conspiracy theories about the origins of the pandemic but also mentions circumstantial evidence that supports the possibility that a lab release was involved. That evidence includes a study “conducted by the South China University of Technology, [that] concluded that the coronavirus ‘probably’ originated in the Wuhan Center for Disease Control and Prevention,” located just 280 meters from the Hunan Seafood Market often cited as the source of the original outbreak.
“The paper was later removed from ResearchGate, a commercial social-networking site for scientists and researchers to share papers,” Huang wrote. “Thus far, no scientists have confirmed or refuted the paper’s findings.”
While vaccines, treatments, and social distancing strategies are critical to fighting the COVID-19 pandemic, figuring out where this new coronavirus originated is, too. “It is reasonable to wonder why the origins of the pandemic matter,” the Nature Medicine authors write. “Detailed understanding of how an animal virus jumped species boundaries to infect humans so productively will help in the prevention of future [animal to people transfer] events. For example, if SARS-CoV-2 pre-adapted in another animal species, then there is the risk of future re-emergence events. In contrast, if the adaptive process occurred in humans, then even if repeated zoonotic transfers occur, they are unlikely to take off without the same series of mutations.”
Kristian Andersen, the lead author of the Nature Medicine piece, did not respond to a request for comment on the article, and W. Ian Lipkin, another of the authors, declined to answer any questions about it. Thomas Gallagher, a virus expert and professor at Loyola University of Chicago, seconded the authors in dismissing the idea that the pandemic could have lab roots. “The authors of the new letter in Nature Medicine are arguing that the SARS-CoV-2 originated in animals, not in a research laboratory,” Gallagher says. “I agree completely with the authors’ statement.”
“Suggesting that SARS-CoV-2 is a purposely manipulated laboratory virus or a product of an accidental laboratory release would be utterly defenseless, truly unhelpful, and extremely inappropriate,” Gallagher says.
Still, lab safety has been a problem in China. “A safety breach at a Chinese Center for Disease Control and Prevention lab is believed to have caused four suspected SARS cases, including one death, in Beijing in 2004. A similar accident caused 65 lab workers of Lanzhou Veterinary Research Institute to be infected with brucellosis in December 2019,” Huang wrote. “In January 2020, a renowned Chinese scientist, Li Ning, was sentenced to 12 years in prison for selling experimental animals to local markets.
And China is hardly the only place to experience such accidents. A USA Todayinvestigation in 2016, for instance, revealed an incident involving cascading equipment failures in a decontamination chamber as US Centers for Disease Control and Prevention researchers tried to leave a biosafety level 4 lab that likely stored samples of the viruses causing Ebola and smallpox. In 2014, the agency revealed that staff had accidently sent live anthrax between laboratories, exposing 84 workers. In an investigation, officials found other mishaps that had occurred in the preceding decade.
Whether a lab accident could have led to the COVID-19 outbreak remains unclear, but making that determination is worthwhile, Ebright says: “Understanding the origin of the outbreak is a crucial step to reduce the risk of future outbreaks.”
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da: http://www.greenreport.it/news/scienze-e-ricerca/il-coronavirus-covid-19-non-e-sfuggito-da-un-laboratorio-lorigine-dellepidemia-e-naturale/
Il coronavirus Covid-19 non è sfuggito da un laboratorio: l’origine dell’epidemia è naturale
Smentita ogni ipotesi complottistica: la fonte più probabile del nuovo coronavirus restano pipistrelli e pangolini
[18 Marzo 2020]
Il coronavirus Sars-Cov-2 è emerso a Wuhan, in Cina, a fine 2019 e da allora ha causato un’epidemia, trasformatasi in pandemia, battezzata Covid-19, che si è diffusa in più di 160 altri Paesi, scatenando paure, accuse e fake news, tesi complottistiche e un’ipotesi che per un certo periodo è andata per la maggiore: il virus era sfuggito (o fatto fuggire, o diffuso) da un laboratorio.
Ora lo studio “The proximal origin of Sars-Cov-2” pubblicato su Nature Medicine da Kristian Andersen, professore associato di immunologia e microbiologia alla Scripps Research, Robert Garry della Tulane University; Edward Holmes dell’università di Sydney; Andrew Rambaut dell’università di Edinburgh e W. Ian Lipkin della Columbia University, mette fine a ogni illazione: il coronavirus legato alla pandemia Covid-19 «è il prodotto dell’evoluzione naturale. L’analisi pubblica dei dati della sequenza del genoma di Sars-Cov-2 e dei virus correlati non ha trovato prove del fatto che il virus sia stato prodotto in laboratorio o progettato in altro modo».
Andersen conferma: «Confrontando i dati disponibili sulla sequenza del genoma per ceppi di coronavirus noti, possiamo stabilire con certezza che la Sars-Cov-2 ha avuto origine attraverso processi naturali».
Alla Scripps Research ricordano che «i coronavirus sono una grande famiglia di virus che possono causare malattie che variano ampiamente per gravità. La prima malattia nota causata da un coronavirus è emersa con l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (Sars) del 2003 in Cina. Un secondo focolaio di malattia grave è iniziato nel 2012 in Arabia Saudita con la sindrome respiratoria del Medio Oriente (Mers).
Il 31 dicembre dello scorso anno, le autorità cinesi hanno avvisato l’Organizzazione Mondiale della Sanità di un focolaio di un nuovo ceppo di coronavirus che causava gravi malattie, che in seguito fu chiamato Sars-Cov-2. Al 20 febbraio 2020, sono stati documentati quasi 167.500 casi Covid-19, sebbene molti altri casi lievi siano probabilmente non diagnosticati. Il virus ha ucciso oltre 6.600 persone».
Poco dopo l’inizio dell’epidemia, gli scienziati cinesi hanno sequenziato il genoma della Sars-Cov-2 e reso disponibili i dati ai ricercatori di tutto il mondo. Il nuovo studio evidenzia che «i risultanti dati sulla sequenza genomica hanno dimostrato che le autorità cinesi hanno rapidamente rilevato l’epidemia e che il numero di casi Covid-19 è aumentato a causa della trasmissione da uomo a uomo dopo una singola introduzione nella popolazione umana». Andersen e il suo team internazionale hanno utilizzato questi dati di sequenziamento per esplorare le origini e l’evoluzione di Sars-Cov-2 concentrandosi su diverse caratteristiche rivelatrici del virus.
Gli scienziati, grazie a un finanziamento dell’US National Institutes of Health, the Pew Charitable Trusts, the Wellcome Trust, dell’European Research Council e dell’ARC Australian Laureate Fellowship, hanno analizzato il modello genetico per i picchi delle proteine dei picchi, le “armature” esterne che il virus che utilizza per agganciare e penetrare le pareti esterne delle cellule umane e animali. In particolare, si sono concentrati su due importanti caratteristiche della proteina spike: il receptor-binding domain (RBD), una specie di uncino che si aggrappa alle cellule ospiti e il sito di scissione, una specie di apriscatole molecolare che consente al virus di aprire le cellule ospiti e penetrarvi dentro.
Gli scienziati hanno scoperto che «la porzione di RBD del picco delle proteine Ars-Cov-2 si era evoluta per colpire efficacemente una caratteristica molecolare all’esterno delle cellule umane chiamata ACE2, un recettore coinvolto nella regolazione della pressione sanguigna». Infatti, la proteina del picco Sars-Cov-2 è così efficace nel legarsi alle cellule umane che gli scienziati hanno concluso che «è il risultato della selezione naturale e non il prodotto dell’ingegneria genetica».
Un’evidenza dell’evoluzione naturale è stata confermata dai dati sulla struttura molecolare complessiva del Sars-Cov-2. Gli scienziati evidenziano che «se qualcuno avesse cercato di ingegnerizzare un nuovo coronavirus come patogeno, lo avrebbe costruito dalla struttura portante di un virus noto per causare malattie». Ma gli scienziati hanno scoperto che la struttura portante del Sars-Cov-2 differiva sostanzialmente da quella dei coronavirus già noti e assomigliava per lo più a «virus correlati trovati nei pipistrelli e nei pangolini». Andrsen aggiunge: «Queste due caratteristiche del virus, le mutazioni nella porzione RBD della proteina spike e la sua distinta struttura portante, escludono la manipolazione di laboratorio come una potenziale origine per Sars-Cov-2».
Secondo Josie Golding, responsabile delle epidemie al Wellcome Trust UK, «i risultati di Andersen e dei suoi colleghi sono di fondamentale importanza per fornire una visione basata sulle prove rispetto alle voci che circolano sulle origini del virus (Sars-Cov-2) che ha causato la Covid-19. Concludono che il virus è il prodotto dell’evoluzione naturale, ponendo fine a qualsiasi speculazione su una deliberata ingegneria genetica».
Sulla base dell’analisi del sequenziamento genomico, il team di Andersen ha concluso che le origini più probabili per SARS-CoV-2 derivano da uno di due possibili scenari. Nel primo scenario, il virus si è evoluto al suo attuale stato patogeno attraverso la selezione naturale in un ospite non umano e poi ha fatto il salto nell’uomo. «E’ così – ricordano i ricercatori – che sono emersi i precedenti focolai di coronavirus, con gli esseri umani che hanno contratto il virus dopo l’esposizione diretta agli zibetti (Sars) e ai cammelli (Mers)». I ricercatori hanno indicato i pipistrelli come il serbatoio più probabile per Sars-Cov-2 «in quanto è molto simile a un coronavirus di pipistrello». Il problema è che non ci sono casi documentati di trasmissione diretta pipistrello-umano, il che suggerisce che ci sia stato un ospite intermedio tra pipistrelli ed esseri umani. Gli scienziati spiegano ancora che «in questo scenario, entrambe le caratteristiche distintive della proteina spike di Sars-Cov-2 – la porzione di RBD che si lega alle cellule e il sito di scissione che apre il virus – si sarebbero evolute al loro stato attuale prima di penetrare nell’uomo. In questo caso, l’attuale epidemia sarebbe probabilmente emersa rapidamente non appena gli esseri umani fossero stati infettati, poiché il virus avrebbe già sviluppato le caratteristiche che lo rendono patogeno e in grado di diffondersi tra le persone».
Nel secondo scenario proposto, una versione non patogena del virus sarebbe passata da un ospite animale a un essere umano e poi si sarebbe evoluta all’interno della popolazione umana fino ad assumere il suo attuale stato patogeno. «Ad esempio – dicono i ricercatori – alcuni coronavirus di pangolini, mammiferi simili all’armadillo che si trovano in Asia e in Africa, hanno una struttura RBD molto simile a quella della Sars-Cov-2. Un coronavirus avrebbe potuto essere trasmesso da un pangolino a un essere umano, direttamente o attraverso un ospite intermedio, come zibetti o furetti. Quindi l’altra caratteristica distinta della proteina spike di Sars-Cov-2, il sito di scissione, potrebbe essersi evoluta all’interno di un ospite umano, probabilmente attraverso una circolazione non rilevata, limitata tra la popolazione umana, prima dell’inizio dell’epidemia». I ricercatori hanno scoperto che «il sito di scissione Sars-Cov-2 sembra simile ai siti di scissione di ceppi dell’influenza aviaria che hanno dimostrato di trasmettersi facilmente tra le persone. Sars-Cov-2 avrebbe potuto evolvere un sito di scissione così virulento nelle cellule umane e dare il via presto all’attuale epidemia, poiché il coronavirus sarebbe diventato molto più in grado di diffondersi tra le persone».
Rambaut conclude avvertendo che «a questo punto è difficile, se non impossibile, sapere quale degli scenari è più probabile. Se la Sars-Cov-2 è penetrata nell’uomo nella sua attuale forma patogena da una fonte animale, questo aumenta la probabilità di futuri focolai, dato che il ceppo del virus che causa la malattia potrebbe ancora circolare nella popolazione animale e potrebbe saltare ancora una volta negli esseri umani. Le probabilità sono inferiori per un coronavirus non patogeno che entra nella popolazione umana e quindi evolve proprietà simili a Sars-Cov-2».
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https://www.fanpage.it/attualita/coronavirus-parla-lesperto-galli-non-e-nato-in-laboratorio-come-dicono-i-complottisti/
Coronavirus, parla l’esperto Galli: “Non è nato in laboratorio, come dicono i complottisti”
“Appare evidente che è un virus che si è evoluto e cresciuto in natura, non certo in laboratorio, come ipotizzato da alcuni complottisti”, afferma Massimo Galli, esperto di malattie infettive e primario all’ospedale Sacco di Milano. La precisazione vuole sottolineare che se qualcuno avesse voluto mettere intenzionalmente in circolazione un’epidemia “avrebbe usato quello della Sars che era già pronto”. Ma “non ha senso farne uno simile, solo in parte, a uno già esistente”.
Il Sars-Cov-2 non può essere stato creato in laboratorio: lo afferma Massimo Galli, esperto di malattie infettive e primario all'ospedale Sacco di Milano. Se fosse stato realizzato in provetta sarebbe identico ad altri già esistenti, come ad esempio quello della Sars, ha spiegato Galli. L'esperto ha appena pubblicato uno studio dettagliato sulle caratteristiche del virus: "Appare evidente che è un virus che si è evoluto e cresciuto in natura, non certo in laboratorio, come ipotizzato da alcuni complottisti", si legge.
Quindi viene spiegato che se fosse stato creato in laboratorio, appunto come riportano alcune teorie, "avrebbe avuto una partenza più piatta e un'evoluzione diversa". Un altro punto importante che viene evidenziato è che il Sars-Cov-2 "è molto simile, ma non completamente identico, ad altri coronavirus". Il primario milanese quindi prosegue: "Uno studio pubblicato su Lancet la scorsa settimana ha mostrato che il nuovo coronavirus è uguale a quello del pipistrello per l'88%, a quello della Sars per il 79% e a quello della Mers per il 50%". La precisazione di Galli vuole sottolineare che se qualcuno avesse voluto mettere intenzionalmente in circolazione un'epidemia "avrebbe usato quello della Sars che era già pronto". Ma "non ha senso farne uno simile, solo in parte, a uno già esistente".
Queste teoria, continua, non tengono infine conto del fatto che un esperto capirebbe subito se si trattasse di un virus creato in laboratorio: "Se io volessi fare un supervirus dell'influenza che di per sé è costituito da 8 geni, dovrei mettere insieme 8 geni di provenienza diversa, il cui percorso potrebbe essere individuato facilmente da un esperto del campo. Quello che abbiamo è invece un virus che si è evoluto a partire da quello del pipistrello, a cui è uguale per l'88%"
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Il virus Covid-19 non si ferma con le armi: “Questa non è un’esercitazione"
23 marzo 2020 - Peacelink
“Questa non è un’esercitazione. Non è il momento di arrendersi. Non è un momento di scuse. Questo è un momento di superare tutti gli ostacoli”, ha detto a Ginevra il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus. “I paesi hanno predisposto piani per decenni per scenari di questo genere. Ora è il momento di attuare tali piani”.
Di quali piani parla il direttore generale dell’OMS? In Italia esiste un “Piano Nazionale di Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza (PNCAR)” che ha come obiettivo generale quello di ridurre la frequenza delle infezioni sostenute da microrganismi resistenti agli antibiotici e di quelle associate all’assistenza sanitaria ospedaliera e comunitaria. In particolare sul sito del Ministero della Salute si possono trovare tutti gli atti recanti misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19. Diversa è la strategia per fronteggiare le conseguenze di una eventuale diffusione intenzionale di un virus (bioterrorismo). In questo caso vige il Piano Nazionale di Difesa Settore Sanitario che consiste in una parte non classificata, quella divulgata, e di una parte classificata, cui hanno accesso solo operatori provvisti di nulla osta di segretezza.
Come ricorda il medico Ernesto Burgio, esperto di biologia molecolare, epigenetica e nuove biotecnologie genetiche e membro del consiglio scientifico di ECERI European Cancer and Environment Research Institute – Bruxelles, la possibilità dell’arrivo di una nuova epidemia molto grave dopo Ebola e Sars era stata prevista, il punto non era se sarebbe arrivata, ma quando sarebbe arrivata. Di fronte ad una seria minaccia bisognava pensare allo “scenario peggiore possibile” e mettere subito in campo una strategia di contrasto del virus rapida, efficace e duratura: limitare/rallentare la diffusione, salvaguardare i sistemi sanitari e proteggere la salute degli operatori sanitari.
Il 21 marzo, dopo 10 giorni che l'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato il coronavirus pandemia, sui giornali si parla di Bergamo, l'Eden produttivo, come di una Wuhan italiana. Secondo Silvio Garattini, presidente e fondatore dell’istituto Mario Negri, uno dei motivi è che a Bergamo è stata privilegiata la protezione dell’attività economica rispetto alla tutela della salute. Sia il Governo sia le regioni, soprattutto quelle del nord, puntano molto sulla responsabilità dei suoi cittadini e non sulle proprie. Eppure i cittadini/lavoratori non partecipano ai processi decisionali.
Continua invece a crescere il malessere dei lavoratori perché senza protezioni e senza servizi: in primis medici, infermieri, tutto il personale sanitario e delle pulizie, dagli operai e impiegati di uffici e fabbriche alle commesse dei supermercati, dai rider delle consegne a domicilio ai farmacisti e camionisti agli autisti del trasporto pubblico e privato, a tutta la moltitudine di lavoratori/cittadini a cui viene continuamente richiesto di assumere comportamenti prudenziali. Nel sito PuntoSicuro, il quotidiano sulla sicurezza su lavoro, è stato pubblicato un piano di emergenza aziendale per fronteggiare il Coronavirus. Fra i vari punti c’è: “Occorre raccomandare a tutti i dipendenti l’assunzione di comportamenti prudenziali, sia avvicinandosi ad altri colleghi, sia tenendo costantemente igienizzate le mani “. Ai datori di lavoro si ricorda di affiggere all’ingresso dell’azienda e in altri locali comuni le raccomandazioni del ministero della salute.
L’11 marzo 2020, il presidente della Lombardia inviava un documento al governo per chiedere“ulteriori misure di contenimento della diffusione del coronavirus (chiusura negozi, i pubblici esercizi, le strutture ricettive e i servizi), d’accordo anche con la regione Veneto. Tuttavia escludeva le attività produttive perché devono essere gli industriali a "regolamentare l'eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese".
Il 14 marzo CGIL-CISL e UIL raggiungono una intesa con il Governo per garantire la sicurezza nelle fabbriche. Il 15 marzo i sindacati FIM-FIOM e UILM sottoscrivono un protocollo con i vertici di Leonardo per il contrasto alla diffusione del virus Covid-19. E’ previsto fra l’altro che “Nelle giornate dal 18 al 25 marzo saranno attive sospensioni / riduzioni di attività selettive e modulari, realizzate attraverso progressive riattivazioni parziali delle attività operative”.
Ma allora di che sciopero si parla oggi, 23 marzo, presso gli stabilimenti di Leonardo? “Sono diverse le aziende nel settore aerospazio dove sono scattati oggi gli scioperi contro il decreto del Governo che avrebbe esteso le attività strategiche per il Paese. A incrociare le braccia al momento i lavoratori di Leonardo (36 mila dipendenti), Ge Avio, Fata Logistic System, Lgs, Telespazio, Vitrociset, Mbda, Dema, Cam e Dar”.
Il 21 marzo ancora una volta il presidente della Lombardia Fontana dichiara, alla luce di una situazione che definisce tragica, che ha deciso la “sospensione dell’attività degli uffici pubblici, degli studi professionali, il fermo delle attività nei cantieri e il divieto di praticare sport e attività motorie svolte all’aperto, anche singolarmente”. Ha previsto inoltre la chiusura dei distributori automatici cosiddetti ‘h24’ che distribuiscono bevande e alimenti confezionati. Chi non rispetterà il “il divieto di assembramento nei luoghi pubblici – fatto salvo il distanziamento (droplet)” rischia un’ammenda fino a 5mila euro. L’atto “entra in vigore il 22 marzo e produce effetto fino al 15 aprile. In una nota della Regione si specifica anche che i rappresentanti delle associazioni di impresa hanno garantito che fin dalle prossime ore chiederanno ai propri associati di sospendere comunque tutte quelle produzioni che non fanno parte delle filiere essenziali.
Dunque saranno le associazioni di impresa a decidere quali saranno le filiere essenziali e quali no.
Il 23 marzo, dopo la pubblicazione del decreto che introduce ulteriori “Misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale”, Vincenzo Boccia, numero uno di Confindustria, scrive al Presidente del Consiglio: “È necessario, per esempio, con una disposizione generale, consentire la prosecuzione di attività non espressamente incluse nella lista e che siano però funzionali alla continuità di quelle ritenute essenziali. Occorre poi un’analoga disposizione che consenta la prosecuzione di quelle attività che non possono essere interrotte per ragioni tecniche. Inoltre c'è l'esigenza che la prosecuzione possa essere garantita con procedure amministrative semplificate. Vanno anche fatte salve quelle attività di natura manutentiva, finalizzate a mantenere in efficienza macchinari e impianti. Inoltre è indispensabile che non si presta in modo efficace a definire le attività industriali”.
Di fatto con il decreto Conte viene ritenuta utile a fronteggiare l’emergenza l’attività svolta nelle aziende della Difesa: “sono consentite le attivita' dell'industria dell'aerospazio e della difesa, nonche' le altre attivita' di rilevanza strategica per l'economia nazionale, previa autorizzazione del Prefetto della provincia ove sono ubicate le attivita' produttive”.
E’ paradossale leggere articoli che raccontano “Le fabbriche degli F35 al tempo della quarantena”: Anche l’industria militare deve fare i conti con il virus. L’aereo più avanzato del mondo costruito grazie a un’interconnessione totale. Due fabbriche fuori dagli Usa partecipano alla sua costruzione: quella giapponese è chiusa, quella di Cameri (Novara) marcia a ritmi ridotti. Pentagono preoccupato sugli effetti di lungo termine”.
Maria Antonietta di Francia venne chiamata “Madame Deficit'', l’F-35 una “Stella morta” (Le stelle morte sono quei progetti militari che risucchiano tempo e denaro in un buco nero). E’ l’inizio di una nuova rivoluzione?
“La salute pubblica dovrebbe stare in modo sostanziale, oggi più che mai, al centro dell’indirizzo politico del Governo e non in modo meramente formale o, peggio, ipocrita e retorico. Gli appelli costanti a restare a casa, certamente da seguire, non salveranno nessuno. La limitazione delle libertà individuali dei cittadini risulta un provvedimento tanto pervasivo quanto inutile e incomprensibile alla gente se viene confrontato con il protratto mancato stop della filiera produttiva nazionale”. Pertanto il 25 marzo il sindacato USB proclama una giornata di sciopero generale.
Riferimenti:
Piano antibiotico-resistenza (PNCAR) http://www.salute.gov.
Raccolta degli atti recanti misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19http://www.salute.gov.
Comunicato stampa: Leonardo: sottoscritto con FIM, FIOM e UILM protocollo aziendale per il contrasto alla diffusione del virus Covid-19 https://www.
Bioterrorismo http://www.
Scenari e pianificazioni di Scenari e pianificazioni di gestione crisi in Difesa Civile http://www.salute.gov.
Coronavirus: origini, effetti e conseguenze https://www.
COVID-19. Informazioni e approfondimenti sul Nuovo Coronavirus: Il nuovo protocollo per tutelare la salute nei luoghi di lavoro.https://www.
“Bergamo, il freno delle aziende e gli errori in corsia: Così la città è diventata capitale europea del virus: solo a Wuhan più vittime e contagi” Intervista a Silvio Garattini pubblicata da Repubblica il 21 Marzo 2020
Coronavirus, la serrata di Fontana non comprende le fabbriche: “Deciderà Confindustria”. Che non intende chiudere https://www.
Coronavirus, la diretta – Lombardia ferma cantieri, uffici pubblici e sport. Stretta anche in Piemonte. Dogane: stop al lotto e alle slot. Sindacati al governo: “Chiudere le attività non essenziali” https://www.
Il contagio non si ferma, Conte chiude quasi tutto. Catena di smontaggio. Stop a «tutte le attività produttive non essenziali». Il pressing dei sindacati su Governo e Confindustria produce in serata l'annuncio del premier Conte: per frenare il contagio e la strage da Covid-19 - ieri 793 morti, record dei decessi in un giorno, e cinquemila nuovi casi - chiudono le fabbriche https://ilmanifesto.
Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro fra sindacati confederali e Governo https://www.fim-cisl.
Coronavirus, sciopero a Leonardo https://genova.
Coronavirus, dall’aerospazio ai trattori e l’ambiguità del ciclo continuo: le modifiche “last minute” all’elenco delle fabbriche che restano aperte. “Tante non sono essenziali, così è stato depotenziato il decreto” https://www.
La lettera al premier. Boccia a Conte: «Industria al servizio del Paese, ma servono correttivi» https://www.
DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 22 marzo 2020 https://www.
Le fabbriche degli F35 al tempo della quarantena. La Stampa del 5 marzo 2020.
Sciopero generale il 25 marzo 2020 https://www.usb.it/
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Coronavirus: natura, incidente o arma?
(da Analisi Difesa )
“Anche quando sono molto inefficaci, con pochi morti, come nel caso delle lettere all’antrace negli USA, le armi biologiche sono considerabili come armi di ‘rottura’ di massa poichè possono gettare un’intera nazione nel caos. Le armi biologiche influenzeranno molti aspetti della nostra vita di routine, mandandoli fuori schema. Porteranno il terrorismo sulla soglia di casa di ognuno di noi”. Così scriveva nel 2004 l’ufficiale indiano Sharad S. Chauhan nell’introduzione del suo libro “Biological Weapons”, tracciando un affresco che parrebbe realizzarsi oggi, sebbene il virus SARS-CoV-2, meglio noto al pubblico col nome della malattia, Covid-19, venga considerato dai più di origine naturale. E vogliamo comunque pensare che lo sia, anche perchè, storicamente, dalla Cina e in genere dall’Asia, si sono sempre diffuse pandemie che hanno raggiunto l’Europa per via di terra o di mare. E’ chiaro però che in sede di riflessioni geopolitiche non ci si può esimere perlomeno dal rilevare alcuni fatti quantomeno curiosi, lasciando il beneficio del dubbio. E del mistero.
Non è facile tracciare una, peraltro parziale, interpretazione dell’attuale pandemia di virus Covid-19 dal punto di vista dei suoi possibili aspetti strategici e militari. Le informazioni liberamente disponibili possono spesso essere intossicate dalle cosiddette “fake news”, o come preferiremmo dire noi “fandonie”, e da ipotesi complottistiche di ogni tipo.
Per ora l’unica certezza assodata è che lo sconvolgimento causato sugli assetti economici mondiali rischia di essere molto duraturo, e forse di mettere pesantemente in discussione il processo di globalizzazione degli ultimi trent’anni, che ha avuto uno dei suoi epicentri proprio nel delegare alla Cina la funzione di “manifattura universale”, attirandovi per decenni investimenti stranieri e delocalizzazioni produttive di ogni risma.
L’emergenza è reale, forse più ancora nelle sue ricadute psicologiche in economia, che nella pur drammatica mortalità, la quale, per fortuna, non è per il momento paragonabile a quella delle grandi pandemie dei secoli passati.
La Peste Nera del XIV secolo uccise nella sola Europa un terzo degli abitanti in appena tre anni, dal 1347 al 1350, mietendo secondo le stime degli storici 25 milioni di morti su un totale di circa 75 milioni di persone che allora vivevano nel nostro continente.
Bilancio terribile fu anche quello, in tempi più recenti, della celebre influenza Spagnola, quella che furoreggiò dal 1918 al 1920, segnando gli ultimi mesi della Prima Guerra Mondiale e i primi mesi del caotico dopoguerra, e che prese il nome non dalla sua origine, in realtà localizzata negli Stati Uniti, ma dal semplice fatto che a darne notizia per prima fu la stampa della Spagna neutrale, non soggetta a censura bellica.
Nel caso della spagnola, che essendo dovuta a un virus influenzale è simile nelle modalità di trasmissione all’odierna epidemia, i morti furono almeno 50 milioni in tutto il mondo, di cui 600.000 in Italia (pari suppergiù al numero dei militari caduti al fronte!), anche se c’è chi propende per i 100 milioni.
Al momento attuale il Covid-19 sembra avere un decorso tragico in una parte minoritaria, seppur cospicua, dei contagiati e le problematiche più critiche nello specifico dell’Italia sono il congestionamento e il rischio di collasso del sistema sanitario nazionale per carenza di posti letto di terapia intensiva, complici gli scriteriati tagli finanziari alla sanità pubblica susseguitisi negli ultimi anni. La guardia non va però abbassata nemmeno sotto l’aspetto della pura mortalità, perchè il virus, nelle sue infinite replicazioni, potrebbe mutare in forme ancor più aggressive, sebbene gli scenari peggiori restino per il momento un’ipotesi degli specialisti in biochimica.
La Cina indebolita
Dal canto nostro possiamo rilevare che l’emergenza si annuncia prolungata nel tempo, avendo anche gli altri Stati dell’Unione Europea varato misure di blocco della vita socio-economica paragonabili a quelle italiane e, prima ancora, cinesi. Poichè la Cina è stato il paese dove prima di ogni altro il virus si è manifestato, e dove l’arginamento registratosi attorno al 15 marzo del 2020 sembra avere avuto un relativo successo, i dati divulgati il 16 marzo dalle autorità di Pechino circa le conseguenze dell’epidemia nei primi due mesi dell’anno possono già dare una vaga idea dello sconquasso.
A parte i lutti, che comunque non hanno prezzo dati gli aspetti spirituali ed emozionali irriducibili alle catene del livello economico, la Cina, come “sistema”, ha subìto un crollo del 13,5 % della produzione industriale e un calo del 20,5 % della domanda interna, cioè i consumi dei cinesi, mentre gli investimenti sono affondati del 24 %.
Nelle stesse ore la Banca Centrale Cinese ha stabilito un intervento di sostegno da 100 miliardi di yuan, oltre 14 miliardi di dollari, per le banche commerciali del paese in modo da assicurare crediti alle aziende in crisi.
E’ presto per dire che la “locomotiva” del mondo sia deragliata, ma non c’è dubbio che l’epidemia sia calata come una mannaia su una Cina che già aveva chiuso il 2019 all’insegna di svariate preoccupazioni strutturali.
Il 17 gennaio 2020, quando ancora l’epidemia era agli inizi, il responsabile dell’Ufficio Nazionale di Statistica di Pechino, Ning Jizhe, divulgava i dati aggiornati a fine 2019 che davano la popolazione del paese a 1,435 miliardi di persone, lamentando tuttavia il continuo calo delle nascite, indizio di un invecchiamento del paese. Rispetto alla gran massa cinese, nel 2019 sono nati “solo” 14,65 milioni di bambini, pari a un tasso di natalità di 10,48 ogni mille persone.
E’ il terzo anno consecutivo di calo delle nascite, dopo che nel 2017 queste erano calate a 17,23 milioni (tasso del 12,43) rispetto alle 17,86 milioni (tasso 12,95) del 2016. Nel 2018 erano poi scese a 15,23 milioni (tasso 10,94), per poi, appunto calare ancora di 580.000 “culle vuote”. Da quando Mao Zedong fondò la Repubblica Popolare nel 1949, non sono mai nati così “pochi” bambini in Cina come nel 2019, e alla luce degli sconvolgimenti che il Covid-19 si lascerà dietro è presumibile che anche nel 2020 e forse negli anni successivi potrebbe consolidarsi un’ulteriore diminuzione di natalità.
E’ chiaro che gli effetti pratici in fatto di calo della manodopera si avranno fra una ventina d’anni, quando i nuovi nati entreranno nell’età adulta, ma la prospettiva di un invecchiamento della società cinese analogo, fatte le debite proporzioni, a quello dei paesi occidentali spaventa già adesso una classe dirigente, quella di Pechino, che già di per sè tende a fare programmi a lunga scadenza.
L’Ufficio Nazionale di Statistica ha anche lanciato l’allarme sul fatto che il rallentamento demografico si sta abbinando a un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo. Il 2019 è stato per la Cina non solo l’anno col più basso tasso di natalità degli ultimi 70 anni, ma anche quello con la crescita del PIL più bassa, il 6,1 % contro il 6,6 % del 2018. Il PIL cinese cresce sempre meno per vari fattori, registrati dagli economisti, come il calo dei consumi interni, indice di una minor fiducia nel futuro, e una stagnazione delle esportazioni, che nel 2019 sono aumentate solo dello 0,5 %, come riflesso del braccio di ferro con l’America sui dazi.
Come se non bastasse, incombe il crescente indebitamento della Cina a tutti i livelli, privato e pubblico, arrivato al 155 % del PIL. Le insolvenze dei debiti societari sono arrivate a 130 miliardi di yuan (18,7 miliardi di dollari) nel 2019, rispetto ai 121,9 miliardi di yuan del 2018, quando c’era stato un balzo rispetto ai soli 26,6 miliardi di yuan del 2017.
E’ quindi su una nazione già in affanno che si è abbattuta la “piaga biblica” del Covid-19, questo microscopico essere che minaccia di affossare quello che avrebbe dovuto essere “il secolo cinese”. Al diretto impatto del virus sul tessuto industriale e commerciale cinese, a causa del blocco totale di gigantesche aree come quella dell’Hubei, ma anche altri distretti nevralgici, vanno aggiunte infatti le conseguenze che potrebbe portare sul commercio internazionale.
Cina a parte, se l’emergenza nel resto del mondo dovesse durare troppo tempo, potrebbero levarsi dubbi crescenti sull’opportunità di proseguire con una globalizzazione spinta.
Già di per sè le epidemie pongono ostacoli alla libera circolazione internazionale delle persone, ma in senso indiretto possono coinvolgere anche le merci e la divisione internazionale del lavoro. Prendiamo ad esempio il problema delle mascherine sanitarie di cui si è registrata carenza in Italia, poichè venivano tutte importate dall’estero, tanto che si è iniziato a invocarne una produzione nazionale, leggi “autarchica”.
Discorso simile lo si potrebbe fare per l’arresto della filiera industriale, specie automobilistica, in molti paesi europei per l’interruzione dell’arrivo di parti meccaniche dall’Asia.
E’ plausibile che, per estensione, e per proteggere i posti di lavoro minacciati dalla nuova crisi, col tempo le nazioni occidentali possano ripensare la delocalizzazione, anche con decisi diktat degli Stati, preferendo aumentare la quota di prodotti fabbricati, o almeno “trasformati”, all’interno dei propri confini, a discapito dei prodotti finiti importati dall’estero, e nello specifico dalla Cina (ma lo stesso discorso, almeno in linea di principio, potrebbe valere anche per il “made in Turkey, Bangladesh, India”, eccetera). La tendenza a ritornare, almeno parzialmente, a fabbricarci in patria molti prodotti finiti, a bassa, ma forse anche ad alta tecnologia, finora demandati al “made in China” potrebbe essere devastante per il Dragone, che proprio sulle esportazioni di massa ha fondato la sua uscita dalla povertà, a partire dai timidi esperimenti avviati da Deng Xiao Ping nel 1979 con le prime Zone Economiche Speciali.
In ogni senso, quindi, la Cina potrebbe essere la nazione che più di tutte paga “dazio”, è il caso di dirlo, al virus, nel senso che gran parte dei danni subiti dalle economie occidentali potrebbero, almeno teoricamente, essere ancora “scaricati” sulla stessa Cina invertendo, a poco a poco, la tendenza a far costruire ai cinesi un mucchio di merci, dai cacciavite ai cellulari, che qualsiasi paese occidentale è in grado di produrre sul suo territorio.
In effetti, il gioco dei cambi valutari fra le varie monete che finora ha reso redditizia la delocalizzazione potrebbe entrare in crisi risentendo delle perturbazioni a cascata a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane, sempre a causa dell’epidemia.
Il concomitante scenario saudita
Le perdite delle maggiori borse, sia in Europa, sia negli Stati Uniti, e il bisogno di liquidità hanno già spinto il 15 marzo la Federal Reserve a ridurre i tassi d’interesse del dollaro fra 0 e 0,25 %, quasi nulla, e a impegnarsi a comprare ben 700 miliardi di dollari in titoli.
Ma poche ore dopo, il 16 marzo, le borse mondiali seguitavano nonostante ciò a perdere terreno, spingendo il Fondo Monetario Internazionale a impegnarsi per 1.000 miliardi di dollari. Una tempesta del genere è aggravata dalla sovrapproduzione di petrolio che a causa della guerra al ribasso fra Russia e Arabia Saudita, non esclusi gli USA che sgomitano con il loro “shale oil”, ha fatto segnare il 16 marzo un record di soli 29 dollari al barile, dopo una continua discesa. Il brusco calo della domanda di greggio a causa dell’arresto dell’economia e dei trasporti, specie quelli aerei, in tutto il mondo rischia di far collassare il mercato dell’oro nero ponendo in difficoltà soprattutto l’Arabia Saudita, che per pareggiare il suo deficit di bilancio ha bisogno di un prezzo di ben 80 dollari al barile, mentre la Russia inizia a “perderci” solo da quando il prezzo scende sotto i 40 dollari.
E ciò senza contare il fatto che l’economia dell’Arabia Saudita è assai poco diversificata, mentre la sua stabilità politica è un’incognita se si considerano i nuovi arresti ordinati dall’uomo forte del paese, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, vicepremier e ministro della Difesa. Il 7 marzo 2020 Bin Salman ha fatto arrestare con l’accusa di preparare un colpo di stato tre suoi parenti della famiglia reale, cioè suo fratello principe Ahmed, l’ex-principe ereditario Mohammed Bin Nayaf, che era designato alla successione dell’anziano re Salman fra il 2015 e il 2017, quando fu “scavalcato” dall’ambizioso Bin Salman, e il di lui fratello Nawaf Bin Nayef.
Non pago, il 16 marzo il principe ereditario ha anche sbattuto in gattabuia, tramite la Nazaha, la Commissione anticorruzione nazionale saudita, ben 298 funzionari governativi, militari, giudici, insomma la “crema” dell’apparato statale saudita, accusati di “corruzione, abuso di ufficio e dell’appropriazione indebita”.
Una simile purga, che ricorda quella attuata da Bin Salman nell’autunno 2017, conferma che a Riad il clima è torbido e che la posizione dell’ambizioso principe è insicura. I contraccolpi economici causati dal virus stanno mandando in rosso i bilanci sauditi mettendo a rischio i sogni di riforma e modernizzazione del paese che Bin Salman pronosticava entro il 2030.
Mentre l’85enne re Salman, suo padre, si avvia al tramonto, il principe e i suoi avversari sono impegnati in una lotta senza esclusione di colpi che potrebbe portare il paese petrolifero a una difficilissima situazione, già aggravata dal crollo dei prezzi del barile.
E’ chiaro che se l’Arabia Saudita, già impegolata nella lunga guerra in Yemen, “saltasse”, in termini di rivolte, golpe, tentati golpe o guerra civile, ci sarebbero fortissimi contraccolpi sul valore del dollaro, la cui forza come massima moneta internazionale è dovuta in gran parte allo status di petroldollaro basato sull’asse fra Washington e Riad. In caso contrario infatti la Federal Reserve non potrebbe stampare montagne di biglietti verdi senza il rischio che il loro valore cali troppo bruscamente. Ecco quindi che, mettendo da parte lo specifico teatro del Medio Oriente, che in questa sede non ci interessa approfondire, per vie indirette, il virus può danneggiare la Cina anche mettendo potenzialmente in discussione (almeno in parte) gli assetti valutari e quelle differenze di valore monetario che avevano fin qui avvantaggiato gli investimenti produttivi nel colosso asiatico.
Attacco biologico?
Fin dal suo erompere alla fine del 2019 nella città cinese di Wuhan e nella relativa provincia dell’Hubei, l’epidemia di Covid-19 ha portato al proliferare di voci non confermabili che, da un lato parlavano di una “fuga”, per errore umano, del virus dal laboratorio virologico della città-epicentro, noto come Istituto di Virologia di Wuahn dell’Accademia delle Scienze Cinese, in cinese Zhōngguó Kēxuéyuàn Wǔhàn Bìngdú Yánjiūsuǒ, che da anni è fra i principali centri di ricerca della Cina, dall’altro insinuavano che alla base dell’evento ci fosse stato un vero e proprio attacco di guerra biologica ai danni della Cina, poi sfuggito di mano e dilagato in tutto il mondo.
Voci che non meriterebbero più di tanto credito, se non fosse che il 12 marzo 2020 perfino un pezzo grosso del Ministero degli Esteri di Pechino ha accusato apertamente gli americani di essere all’origine dell’epidemia. Zhao Lijian, portavoce del ministero e vicecapo del dipartimento informativo del medesimo, ha dichiarato pubblicamente su Twitter che “il virus potrebbe essere stato portato a Wuhan da un soldato americano durante i Giochi Militari”. E a ribadire un’origine statunitense del virus, postava un intervento video dello scienziato americano Robert Redfield, in cui egli sosteneva che alcune morti di polmonite verificatesi in America nelle settimane precedenti erano state a posteriori confermate esser dovute al Covid-19.
Zhao si riferiva a un preciso evento sportivo internazionale tenutosi proprio nella città-epicentro del morbo lo scorso autunno, ovvero la settima edizione dei Military World Games, che fra l’altro era ospitata per la prima volta dalla Cina.
I giochi si sono svolti dal 18 al 27 ottobre 2019 e hanno visto arrivare a Wuhan ben 9300 atleti militari da 140 nazioni diverse. Per inciso, anche le Forze Armate italiane vi hanno partecipato, con una squadra di 165 elementi, fra atleti e staff, che hanno totalizzato buoni risultati, con un bottino di 28 medaglie, fra cui 4 ori, 12 argenti e 12 bronzi.
All’edizione di Wuahn è stato dato particolare significato in quanto doveva contribuire ad abbattere la diffidenza militare fra la Cina e i paesi del campo egemonico americano, perciò verso la fine dei giochi il presidente del Consiglio Internazionale dello Sport Militare (CISM), il colonnello francese Hervé Piccirillo, fra l’altro arbitro di calcio, dichiarava il 25 ottobre: “Questi sono giochi che segneranno la storia delle competizioni militari e svilupperanno nuove pratiche in futuro”.
Piccirillo rilevava che, oltre a essere la prima edizione ospitata in Cina, quella di Wuhan è stata la prima olimpiade militare in grande stile in cui i cinesi hanno investito in notevoli infrastrutture: “E’ il messaggio che viene portato da un intero popolo, perché al di là dei giochi, sono tutti i cinesi a diffondere questo messaggio di solidarietà e di pace, che corrisponde all’amicizia attraverso lo sport”. La squadra degli atleti militari americani, composta da 300 elementi, è arrivata all’aeroporto Tianhe di Wuhan nell’arco di due giorni, fra il 15 e il 17 ottobre, andando ad alloggiare nell’attrezzato villaggio olimpico.
La presenza per diversi giorni di qualche centinaio di militari americani, ancorchè in veste sportiva, in una città ospitante non solo i Giochi Militari, ma anche uno dei maggiori laboratori di virologia della Cina e del mondo, è sicuramente degna di nota, anche solo come curiosa coincidenza, se non di più, considerando poi l’apparire dell’epidemia.
E se l’evento sportivo può aver offerto una copertura perfetta a qualche operazione occulta, a voler dar retta alle accuse di Zhao Lijian, anche la concomitanza della presenza nella città dell’importante laboratorio rappresenta un ideale “alibi” consentendo di incolpare facilmente gli stessi scienziati cinesi per una (vera o presunta) negligenza.
Un regime come quello cinese difficilmente lascerebbe spazio a un alto funzionario di esprimere accuse od opinioni a livello personale e pertanto è probabile che quello del portavoce Zhao non fosse un semplice sfogo, ma una precisa accusa agli Stati Uniti che il governo di Pechino ha voluto affidare a un sottoposto del ministro degli Esteri Wang Yi, per non esporre direttamente il ministro e lanciare a Washington un monito più sommesso: “Noi sappiamo”.
Le accuse circa un militare americano “untore” sono state sufficienti perchè il 13 marzo il Dipartimento di Stato USA convocasse l’ambasciatore cinese a Washington, Cui Tiankai, affinchè David Stilwell, sottosegretario di Stato per lo scacchiere Asia-Pacifico, nonchè ex-ufficiale dell’US Air Force, gli esprimesse “una severa rimostranza”.
Altre fonti del Dipartimento di Stato USA, rimaste anonime, hanno fatto sapere alla stampa che, con l’affondo del portavoce Zhao, “la Cina sta cercando di deviare le critiche per aver dato origine a una pandemia non dicendolo al mondo”. Anche a voler considerare una semplice casualità il passaggio in ottobre di militari stranieri per i giochi di Wuhan, v’è però da considerare un’altra inquietante coincidenza.
Esattamente un mese prima dell’inizio dei Giochi Militari, ovvero il 18 settembre 2019, l’aeroporto Tianhe di Wuhan è stato teatro di un’esercitazione di contenimento biomedico, riguardante, come ipotesi di lavoro, “l’arrivo di un passeggero affetto da coronavirus”.
La notizia di questa esercitazione è passata in sordina, ma fra le poche testimonianze reperibili in rete che la confermerebbero oltre a svariate immagini, c’è un resoconto di Hubei TV che narra: “Nel pomeriggio del 18 settembre le dogane del Wuhan Tianhe Airport hanno ricevuto un rapporto da una linea aerea secondo cui ‘un passeggero non si sentiva bene, avendo difficoltà a respirare, e i suoi parametri vitali erano instabili’.
Immediatamente, le dogane dell’aeroporto hanno iniziato un piano di contenimento e hanno iniziato a trasferire il passeggero in ospedale. Due ore più tardi, il Centro Medico di Wuhan ha reso noto che al passeggero è stata clinicamente diagnosticata una infezione da Coronavirus”.
Il reportage citava anche un secondo tema di esercitazione, che era “un eccesso di radiazioni” dovuto a un passeggero che tentava di trafugare “un minerale dalla Birmania”. E concludeva inquadrando l’esercitazione nella preparazione delle misure di sicurezza proprio in previsione dei Giochi Militari: “A 30 giorni dall’inizio dei giochi, le dogane di Wuhan hanno fatto ogni sforzo per garantire la sicurezza degli scali e salvaguardare i giochi”.
E’ legittima la domanda del perché i cinesi possano aver pensato al rischio di un coronavirus proprio poche settimane prima dell’arrivo di militari stranieri, e nella fattispecie americani.
Ammesso, e non concesso, che i loro servizi segreti si aspettassero qualche contaminazione dall’esterno, potrebbero essere stati preavvertiti? Ed è forse per questo motivo che il governo cinese ha inizialmente tenuto una condotta riservata sull’esplodere dell’epidemia?
Pechino sostiene che il “paziente zero” di Wuhan deve aver contratto il virus per non meglio determinato “salto di specie” da un pipistrello o da un pangolino all’uomo, verificatosi forse per via alimentare al mercato di Wuhan intorno al 17 novembre 2019.
La nuova specie di virus sarebbe stata ufficialmente isolata e classificata nei primi malati gravi di polmonite virale registrati nell’Hubei solo il 31 dicembre come SARS-CoV-2, poi sintetizzato in Covid-19.
Subito è emersa la parentela genetica del nuovo virus con quello della SARS che aveva suscitato paure, per poi essere arginato, a cavallo fra 2002 e 2003, avendo in comune l’appartenenza alla famiglia dei coronavirus.
Il superiore tasso di mortalità, inizialmente calcolato attorno al 2,5 %, e i tempi lunghi di incubazione, che facilitano la diffusione per via degli ignari contagiati asintomatici, hanno fatto capire subito alla sanità cinese che la malattia non era da sottovalutare.
Ma le direttive del regime volte inizialmente a minimizzare, nonchè il fatto che a Wuhan fosse presente il famoso laboratorio virologico hanno indotto a credere il virus si fosse diffuso a partire proprio dall’Istituto per un incidente.
E’ stato assodato ad esempio, poichè confermato il 16 febbraio dalla rivista del Partito Comunista Cinese “Qiushi”, che il presidente cinese Xi Jinping conosceva la gravità della situazione fin dal 7 gennaio 2020, quando nel corso di una riunione a porte chiuse del Politburo del partito ordinò di fermare a ogni costo l’infezione.
Cioè 13 giorni prima che, il 20 gennaio, egli parlasse in pubblico del virus. L’indomani, 21 gennaio, le autorità cinesi ammettevano per la prima volta che era confermata la trasmissione da umano a umano del virus.
Dopo che fin dall’8 dicembre alcuni medici di Wuhan cercavano di dare l’allarme, salvo esser messi a tacere dal regime. Inoltre nel medesimo periodo veniva messo agli arresti domiciliari, per tenerlo lontano dalla scena, l’anziano medico che nel 2003 aveva rivelato i dati reali sull’epidemia di SARS, e che forse Pechino temeva potesse far altrettanto col coronavirus.
E’ il medico militare Jiang Yanyong, 88 anni, in pensione col grado di generale, la cui moglie Hua Zhongwei ha dichiarato il 9 febbraio: “Non è autorizzato a contatti col mondo esterno.
È a casa, la sua salute non è buona. E non sta bene neanche mentalmente. Non sta bene. Scusate, non è opportuno dire di più”. A rincarare la dose, parte della stampa americana pompava sulla possibilità della fuga del virus dai laboratori di Wuhan, specie dopo che il 24 gennaio il “Washington Times” ebbe vagheggiato un “programma cinese di armi biologiche” portato avanti nel centro ricerche di Wuhan e sfuggito al controllo. In verità ciò pare poco probabile per vari motivi.
Il centro virologico di Wuhan, fondato fin dal 1956, si è dotato fin dal 2015 di nuovi laboratori a cui è stato riconosciuto lo standard di sicurezza internazionale BSL-4, del quale si fregiano solo una cinquantina di istituti in tutto il mondo. Inoltre utilizzare un virus di tipo influenzale, per quanto con l’aggressività del ceppo SARS, per caricare testate belliche è militarmente insignificante data la mortalità comunque bassa, non paragonabile a quella di germi ben più letali, come il virus Marburg o il batterio del Botulino.
E allora perchè il governo cinese voleva minimizzare? Solo per prestigio nazionale? Forse solo per non mostrarsi vulnerabile a quello che potrebbe essere stato un attacco “lieve” portato in segreto.
Un duello segreto
Immaginiamo, pur senza dar loro eccessivo credito, che siano verosimili le accuse nei confronti dell’America. Se nel settembre 2019 i cinesi già conducevano un’esercitazione per fermare un ipotetico contagio da “coronavirus” arrivato dall’esterno all’aeroporto di Wuhan, è probabile che si aspettassero qualcosa.
Qualcuno della loro fitta rete di spionaggio negli Stati Uniti potrebbe averli avvisati di un qualche piano per sconvolgere l’economia cinese proprio nel pieno della battaglia commerciale dei dazi.
A riprova della quantità di “antenne” che la Cina mantiene in Nordamerica, non è forse un caso che proprio nel periodo dell’irrompere dell’epidemia il Dipartimento della Giustizia USA si sia mosso in tre direzioni diverse. Il 10 dicembre 2019 è stato arrestato da agenti dell’FBI all’aeroporto Logan di Boston il giovane cinese Zheng Zaosong, che tentava di trafugare in Cina “21 fialette di ricerche biologiche” nascoste in un calzino.
Zheng era entrato negli USA con una visa nell’agosto 2018, poi ha lavorato come ricercatore a Boston, al Beth Israel Deaconess Medical Center, dal 4 settembre 2018 al 9 dicembre 2019, quando ha rubato le fiale venendo però “pizzicato” in aeroporto. In galera già da varie settimane è stato formalmente accusato di contrabbando e frode il 21 gennaio 2020.
Una settimana dopo, il 28 gennaio, è stata accusata pure di frode e spionaggio una ragazza cinese, Ye Yanqing, che entrata negli USA quasi tre anni fa spacciandosi per studente, ha frequentato dall’ottobre 2017 all’aprile 2019 il Dipartimento di Fisica, Chimica e Ingegneria Biomedica dell’Università di Boston.
Solo il 20 aprile 2019, interrogata dall’FBI all’aeroporto Logan, Ye ha ammesso di essere tuttora un tenente dell’Armata Popolare Cinese, nonchè membro del PCC.
Attualmente si trova in Cina. Sempre il 28 gennaio è stato arrestato perfino un “guru” dell’Università di Harvard, il dottor Charles Lieber, preside del Dipartimento di Chimica e Biochimica, nonchè mago delle nanotecnologie, per contatti poco chiari con la Cina, segnatamente per “conflitto d’interessi” avendo collaborato, dietro lauti compensi, dal 2012 al 2017 con l’Università della Tecnologia di Wuhan (ed ecco rispuntare Wuhan!) senza informare adeguatamente Harvard.
Chiaramente non è assolutamente provato che questi tre personaggi abbiano a che fare con le ipotesi relative al Covid-19, ma le loro vicende sono emblematiche della presumibile rete di studenti e accademici cinesi, o prezzolati da Pechino, che sorveglia l’attività scientifica, e dunque anche biochimica, degli americani. E senz’altro la sorveglianza è reciproca.
Per i cinesi, cercare di far finta di nulla nei primi tempi del contagio potrebbe essere stato un modo di lasciare gli americani nell’incertezza circa l’esito di una qualche operazione segreta. E il riserbo potrebbe anche essere dovuto alla cautela necessaria a non dare indizi che porterebbero allo scoperto preziosi informatori negli USA. Ricordate cosa avevamo scritto nelle prime righe di questo scritto, citando le parole di Chaunan?
“Anche quando sono molto inefficaci, con pochi morti, come nel caso delle lettere all’antrace negli USA, le armi biologiche sono considerabili come armi di ‘rottura’ di massa poichè possono gettare un’intera nazione nel caos. Le armi biologiche influenzeranno molti aspetti della nostra vita di routine, mandandoli fuori schema. Porteranno il terrorismo sulla soglia di casa di ognuno di noi”.
Detto in altri termini, seminare una forte polmonite in un paese avversario può sconvolgere quel tanto che basta il tessuto socio-economico nemico, lasciando gli avversari in un eterno dubbio, se si sia trattato cioè di un evento di origine naturale oppure artificiale. Ben difficilmente ci potrà essere infatti una prova definitiva dell’origine di questo virus. Il fatto che la pandemia si sia poi diffusa in tutto il mondo e che stia facendo breccia anche negli Stati Uniti potrebbe essere la riprova che, in realtà, si tratta solo di complottismo.
Il “fronte” europeo
E’ vero però che gli eventi di questi ultimi mesi stanno mettendo in ginocchio anche un altro importante concorrente economico degli USA, ovvero l’Unione Europea, i cui paesi stanno andando in ordine sparso, rischiando peraltro di sovraccaricare la Banca Centrale Europea con richieste di liquidità d’emergenza. Quanto agli Stati Uniti, se anche la paura dilaga e si annuncia uno stato d’emergenza, non va dimenticato che oltreoceano la sanità pubblica è una chimera e la salute in senso generale tende a essere considerata un fatto più privato che collettivo.
Trattandosi di una influenza più aggressiva del normale, la cui mortalità non è catastrofica, potrebbe esistere la possibilità, per quanto remota, che le élites che governano gli Stati Uniti, per certi aspetti paragonabili al patriziato dell’Impero Romano, possano aver pensato che rischiare il trabocco del Covid-19 anche nei propri confini potesse essere un prezzo adeguato per azzoppare Cina e Unione Europea, contando sul diverso approccio, anche come mentalità, che cinesi ed europei hanno in relazione alla salute pubblica.
Quanto ai suddetti rischi economici per l’Arabia Saudita, si tratterebbe di un rischioso effetto collaterale dovuto a volontà indipendenti da Washington, cioè la “lotta” al ribasso fra Riad e i russi, che probabilmente gli stessi americani potevano non aver previsto nella loro portata.
La prova del nove la si avrà osservando i rimedi che Washington potrà eventualmente attuare per salvare il proprio mercato azionario e petrolifero, oltre all’eventuale comparsa di un vaccino proprio in America, e magari in tempi brevi. Diversamente, apparirebbe invece plausibile un’origine naturale, o per incidente, della pandemia.
Certo, l’ipotesi naturale, che contempla il passaggio del Covid-19 alla specie umana per un fenomeno di “zoonosi”, da pipistrello o altro vertebrato, complice la diffusa abitudine alimentare cinese, e in genere orientale, di “mangiare tutto ciò che si muove”, resta a prima vista la più credibile per una serie di fattori. Anzitutto gioverà ricordare che la diffusione di epidemie influenzali a partire dalla Cina è un fatto storico di lungo periodo, basti pensare all’influenza detta “asiatica” del 1957 e a quella “di Hong Kong” del 1968 giunta in Europa nell’inverno del 1969. In genere, poi, dall’Asia sono venute anche pandemie assai più distruttive.
Citavamo all’inizio la Peste Nera che arrivò in Europa nel 1347 dopo essere scoppiata in Asia Centrale e trasmessa ai genovesi della base di Caffa, in Crimea, dai cavalieri mongoli che l’assediavano.
Si potrebbe anche citare il colera, che partì lentamente dall’India attorno al 1816, ma si diffuse in tutto il mondo fra il 1840 e il 1870, quando l’introduzione della navigazione a vapore e delle prime ferrovie, in un periodo in cui le città europee ed americane non avevano ancora fogne efficienti, formò una combinazione esplosiva, paragonabile nel caso odierno alla potenzialità del trasporto aereo di massa nella trasmissione di virus e batteri.
Nello specifico della zoonosi, peraltro, è interessante notare che, per fare un singolo esempio, il batterio della peste, lo Yersinia Pestis, era in origine endemico nei roditori della steppa chiamati dai tartari “tarabagan” e che Marco Polo, nel Milione, chiamava “ratti del faraone”.
Si tratta della specie oggi classificata Marmota Sibirica, una specie di marmotta steppica cacciata e mangiata dai cavalieri nomadi, oltre che infestata di pulci che potevano contaminare gli esseri umani col loro morso. L’apertura di grandi vie carovaniere nell’Eurasia a causa del consolidamento dell’Impero Mongolo, a partire dal 1206 a opera di Gengis Khan e dei suoi successori, aprì vere e proprie corsie preferenziali alla diffusione della peste nel secolo successivo, tantopiù che la Yersinia Pestis, a un certo punto cominciò a esser trasmessa sia attraverso la puntura delle pulci, che saltavano dai roditori all’uomo, sia, nella forma polmonare, da uomo a uomo, in modo simile a quello influenzale.
Il primissimo focolaio di Peste Nera si sarebbe registrato, pare, presso una comunità di tartari nestoriani presso il lago Issyk Kul nel 1339, per poi diffondersi in Cina, dove pure fece sfracelli, e ai mongoli che assediavano Caffa, i quali, peraltro, catapultarono cadaveri infettati oltre le mura come una vera “arma biologica”.
Secondo la ricostruzione più accreditata, i genovesi fuggiaschi da Caffa sulle loro galee diffusero poi la peste nell’arco di poche settimane, fra estate e autunno del 1347, a Costantinopoli e in Sicilia, da cui dilagò in tutta Europa. Sia detto per inciso, la peste resta ancora in agguato in alcune remote parti del mondo e proprio in Cina, nel sostanziale silenzio dei grandi mass media, è stato stroncato sul nascere un nuovo focolaio lo scorso autunno.
Infatti fra il 3 e il 16 novembre 2019 sono stati scoperti tre casi conclamati di peste fra pastori della provincia della Mongolia Interna, sotto la sovranità di Pechino, che avevano mangiato dei tarabagan, causando la messa in quarantena di un totale di 28 persone che avevano avuto contatti con loro.
I cinesi certo non abbassano la guardia nemmeno su questa antica malattia, dato che si teme che i cambiamenti climatici in atto e le loro conseguenze sugli equilibri della popolazione di roditori della steppa possa in futuro portare lo Yersinia Pestis a nuovi salti di specie, forse anche mutazioni. E il fatto che la descrizione dei sintomi della peste medievale, rispetto alle forme più recenti, sembra, a detta degli esperti, ricordare febbri emorragiche più analoghe a quelle del virus Ebola, testimonia una pluralità che non lascia tranquilli gli studiosi.
Profezie letterarie
Il nesso storico fra la Cina e le epidemie è molto profondo, anche dal punto di vista delle sue trasposizioni narrative e non senza sconfinare nell’arma biologica, sia che il grande paese asiatico ne sia vittima o artefice. Ma, come vedremo, al di là delle profezie inquietanti dei romanzi, è interessante ricordare il ben più concreto studio condotto fin dal 2015 a Wuhan da un team di scienziati cinesi e stranieri su un “coronavirus ricavato da un pipistrello e modificato geneticamente per entrare in cellule umane”.
Andando con ordine, si potrebbe partire da un poco noto racconto fantapolitico del romanziere americano Jack London, che nel luglio 1910 pubblicò “The unparallaled invasion”.
Avendo avuto esperienza, come giornalista inviato speciale, della guerra russo-giapponese del 1904, London diede una sua personale interpretazione del “pericolo giallo” immaginando che nel suo futuro 1922 una Cina modernizzata annettesse il Giappone assommandone a sé le risorse industriali e diventando nel successivo cinquantennio una minaccia crescente invadendo i territori limitrofi. A quel punto, nel 1976 le potenze occidentali decidevano di invadere la Cina con uno stratagemma diabolico.
London immaginava gli eserciti e le marine europei e americani circondare totalmente il colosso asiatico con masse di soldati e forze navali, in modo che nessuno potesse fuggire dal paese.
Poi gli occidentali facevano decollare dalle loro navi da guerra squadriglie di piccoli aeroplani (London scriveva nel 1910, quando l’aereo aveva già dimostrato, fin dal 1909, le sue potenzialità trasvolando la Manica con la nota impresa di Louis Bleriot) che andavano a librarsi sopra le maggiori città cinesi in quelli che parevano innocui voli di ricognizione.
Ma i velivoli facevano cadere qua e là, sulle maggiori concentrazioni demografiche cinesi, centinaia di “tubi di vetro” apparentemente vuoti. Erano in verità i vettori di un’imprecisata combinazione di diverse specie di batteri, capaci di innescare epidemie multiple tali da spopolare quasi totalmente la Cina.
Terribile il quadro del multi-contagio immaginato da Jack London: “Se ci fosse stata una sola malattia, la Cina avrebbe potuto affrontarla, ma da un insieme di morbi, nessuna creatura era immune. L’uomo che scampava al vaiolo moriva per la scarlattina. L’uomo che era immune alla febbre gialla, se lo portava via il colera. E se uno era immune anche a quello, la Morte Nera, cioè la peste bubbonica, lo annientava.
Erano questi batteri e germi e microbi e bacilli coltivati nei laboratori dell’Occidente, che erano stati rovesciati sulla Cina con la pioggia di vetro”. Dopo mesi di martirio, con le forze assedianti che uccidevano qualsiasi cinese cercasse di uscire dai confini, l’immenso territorio risultava infine così deserto da consentire agli eserciti occidentali di invaderlo penetrandovi come un coltello nel burro.
L’ombra di una guerra batteriologica coinvolgente la Cina si stagliava anche nei retroscena di un film di fantascienza del 1971 diretto da Boris Sagal e interpretato da Charlton Heston, ovvero “1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra”. Vi si immaginava una disastrosa epidemia diffusasi in tutto il mondo proprio a partire dal confine russo-cinese, dove crescenti scontri armati fra Unione Sovietica e Cina erano presto passati dal livello convenzionale all’uso di armi batteriologiche.
Nelle ultime settimane, poi, sull’onda del Covid-19, la stampa internazionale ha abilmente ripescato un’altra curiosa “profezia”, il romanzo “The eyes in the darkness”, scritto nel 1981 da Dean Koontz ma edito in Italia solo ora, nel 2020, proprio sull’onda delle notizie di attualità e col titolo “L’abisso”.
In esso si parla della diffusione di un virus letale denominato “Wuhan 400”, perchè frutto di un programma segreto cinese di armi biologiche. La coincidenza è però solo apparente nel senso che il virus del romanzo è qualcosa di totalmente diverso da un’influenza. E sul fatto che sia stato prodotto proprio dai laboratori di Wuhan, anche in tal caso, non si può parlare di vera profezia, nel senso che, semplicemente, quando nel 1981 Koontz partorì il romanzo non poteva fare a meno di riferirsi a uno dei principali laboratori cinesi, già allora operante da tempo.
L’esercizio della fantasia narrativa può essere utile a lanciare preziosi moniti per il futuro, tenendo presente che, in particolare, l’idea di Jack London di una guerra biologica ad ampio spettro, con impiego parallelo di più specie di organismi patogeni spalanca prospettive tremende.
Fortunatamente, a rendere, almeno per qualche generazione, improbabili simili scenari catastrofici, ci sono, da un lato la Convenzione sulla Proibizione delle Armi Biologiche, che firmata il 12 aprile 1972 è in vigore dal 26 marzo 1975 impegnando praticamente tutti gli Stati della Terra, e dall’altro lato la funzione deterrente delle armi nucleari o chimiche.
Scenari possibili
E’ ovvio infatti che se uno Stato identificasse sul suo territorio un’aggressione con agenti biologici portata da un paese nemico, si riterrebbe autorizzato a una simile rappresaglia, oppure, non disponendo di tali armi, reagendo con altrettanto catastrofici attacchi nucleari o chimici.
L’impiego di microrganismi porta inoltre notevoli problemi perché trattandosi di esseri viventi non si esauriscono di per sé una volta raggiunta la finalità del loro impiego, ma potenzialmente possono seguitare a replicarsi, a diffondersi negli ecosistemi, perseguendo i propri scopi di sopravvivenza, divergenti da quelli degli uomini che hanno magari avventatamente tentato di utilizzarli.
E magari mutando genoma col susseguirsi delle loro fittissime generazioni. In altre parole, i microrganismi, per macabra ironia, é come se, simbolicamente, lasciassero credere all’uomo di potersi servire di loro, mentre in realtà sono essi stessi, questi piccolissimi e invisibili “guerrieri”, a servirsi di noi, ignari e impacciati giganti.
L’unico serio rischio di impiego di armi biologiche letali potrebbe ancora venire dal terrorismo, che non offrirebbe un territorio e una popolazione suscettibili di una rappresaglia proporzionata. Forse, in un futuro più lontano, un remoto pericolo potrebbe venire da un eventuale mutamento del modo di pensare dei nostri discendenti, che potrebbero essere portati, anche da insospettabili sviluppi tecnici, a pensare alle guerre biologiche come a un qualcosa di attuabile.
Per ora, nell’impossibilità di poter esprimere un giudizio su questa ancora poco chiara pandemia, sarà opportuno ricordare che pochi anni fa un team internazionale di scienziati, sia cinesi sia occidentali, aveva pubblicato un’ampia ricerca su un coronavirus modificato proprio nei laboratori di Wuhan, ma con la collaborazione di istituti esteri come la University of North Carolina, per studiarne la virulenza sui tessuti umani in coltura.
Uscito il 9 novembre 2015 sulla prestigiosa rivista “Nature”, il resoconto aveva un titolo che suonava come un ammonimento: “Un gruppo di coronavirus circolanti nei pipistrelli e simili alla SARS mostra un potenziale per una emergenza umana”.
Autori della ricerca figuravano: Vineet D. Menachery, Boyd L. Yount Jr, Kari Debbink, Sudhakar Agnihothram, Lisa E Gralinski, Jessica A. Plante, Rachel L. Graham, Trevor Scobey, Ge Xingyi, Eric F. Donaldson, Scott H. Randell, Antonio Lanzavecchia, Wayne A. Marasco, Shi Zhengli e Ralph S. Baric.
Come si vede, due scienziati cinesi e svariati americani, indiani e perfino un italiano. La ricerca muoveva le mosse dal rilevare i “rischi di un passaggio di specie” attraverso la modifica con tecniche di bioingegneria di un ceppo SARS-CoV, adattato ai topi, dotandolo delle “spicole” esterne di un altro virus, questo tipico dei pipistrelli cinesi del genere Rhinolophus, ovvero il coronavirus SHC014-CoV.
Scrivevano già nel 2015 questi scienziati: “Il nostro lavoro suggerisce il rischio potenziale del riemergere del SARS-CoV dai virus correntemente circolanti nelle popolazioni di pipistrelli. L’emergere del SARS-CoV preannuncia una nuova era nella trasmissione fra le specie di una grave malattia respiratoria con la globalizzazione che condurrebbe alla sua rapida espansione attorno al mondo e a un impatto economico massivo”.
Creando un virus “chimera”, che avesse il corpo principale del SARS-CoV, ma con le “spikes” dell’SHC014, ovvero quelle che sono un po’ le “chiavi” che consentono l’ingresso nelle cellule parassitate, gli scienziati hanno creato un virus sperimentale dimostratosi in grado di infettare cellule umane in coltura.
E anche se gli ultimi studi sul Covid-19 hanno dimostrato che il suo profilo genetico è in parte diverso da quello del germe modificato, non impossibile che la condivisione di tale ricerca fra Cina e Stati Uniti, oltre al resto del mondo, possa aver in qualche modo portato qualcuno a ipotizzare di proseguire queste ricerche in segreto perfezionando un nuovo agente patogeno.
Già pochi giorni dopo la pubblicazione della ricerca, molti scienziati avevano espresso preoccupazioni. Un virologo dell’Istituto Pasteur di Parigi, Simon Wain-Hobson, commentava: “I ricercatori hanno creato un nuovo virus che cresce molto bene nelle cellule umane. Se il virus fuggisse, nessuno potrebbe prevederne la traiettoria”.
Il biologo molecolare americano Richard Ebright (nella foto a lato), della Rutgers University in Piscataway, New Jersey, si diceva pure timoroso: “L’unico impatto di questo lavoro è la creazione in laboratorio di un nuovo e non-naturale rischio”.
Insieme a Wain-Hobson, Ebright aveva lanciato il 12 novembre 2015 un appello: “Le autorità scientifiche dovrebbero reputare simili studi con la creazione di virus chimerici (cioè artificialmente ottenuti mescolando componenti di ceppi diversi, n.d.r.) basati su ceppi in circolazione troppo rischiosi da proseguire”.
Si chiedevano inoltre se valesse la pena di tali esperimenti contando “i rischi implicati”. Uno degli autori dei suddetti esperienti, l’americano Ralph Baric ribatteva invece che gli esperimenti erano stati utili, dimostrando che il ceppo SHC014 poteva ora essere considerato una minaccia per l’uomo, mentre prima non lo si sarebbe considerato tale: “Non penso che possiamo ignorare tutto ciò”.
Tutto ciò dimostra che i virus tipo SARS a simili, come appunto il Covid-19, possono essere ampiamente modificati dall’uomo tramite le moderne tecniche di bioingegneria.Certo, non è sufficiente a dire che l’attuale pandemia sia originata artificialmente e non dagli insondabili disegni della Natura. Ma lascia aperte le porte alle due interpretazioni alternative, o la fuga dai laboratori di Wuhan del germe, o la sua, probabilmente voluta, diffusione in Cina a partire da un vettore esterno, che in linea teorica potrebbe essere statunitense.
Nelle scorse settimane, uno dei principali scienziati protagonisti del discusso esperimento del 2015, la dottoressa Shi Zhengli (nella foto sotto), vicedirettrice del laboratorio virologico di Wuhan, ha cercato più volte di fugare le ipotesi complottistiche. Scrivendo insieme ai colleghi Zhou Peng e Yang Xinglou un articolo uscito il 3 febbraio 2020 su “Nature”, la Shi ha spiegato: “Abbiamo ottenuto da cinque pazienti nelle fasi iniziali dell’epidemia le sequenze genetiche del virus.
Le sequenze sono quasi identiche e condividono il 79,6% dell’identità sequenziale col SARS-CoV. Inoltre, noi mostriamo che il 2019-nCoV (alias Covid-19) è al 96% identico, a livello di genoma intero, al coronavirus di un pipistrello”.
Pochi giorni dopo, il 7 febbraio, la Shi ha ancora dovuto ripetere, un po’ enfaticamente: “Il nuovo coronavirus del 2019 rappresenta la Natura che punisce la specie umana per il fatto di mantenere abitudini di vita incivili. Io, Shi Zhengli, giuro sulla mia vita che esso non ha nulla a che fare col nostro laboratorio”.
La verità sull’origine di questo virus resta insomma avvolta nell’ombra, in un intreccio di omertà, silenzi, accuse internazionali e, forse, disinformazione. Ovviamente va rilevato che la novità di una specie virale finora ignota giustifica ampiamente il fatto che gli stessi esperti spesso discordino fra loro, dato che stanno essi stessi imparando giorno per giorno nuovi dettagli.
A “pensar male”, come si dice nel linguaggio corrente, si può dire la condivisione internazionale dei risultati degli esperimenti del 2015 avrebbe potuto permettere agli Stati Uniti di modificare e sviluppare autonomamente un proprio ceppo da “seminare” in Cina come blanda arma da “interdizione” batteriologica, per creare enormi problemi sociali a un avversario strategico, anche a costo di subire essi stessi dei contraccolpi.
E il discorso si potrebbe teoricamente allargare all’Unione Europea e anche all’Iran, dove si registrano pure moltissimi decessi. Ma la possibilità teorica, ovviamente, non significa certezza. E altrettanto plausibili restano, sia la pista dell’incidente a Wuhan, sia quella del naturale emergere di una nuova specie naturale.
Finché eventuali testimoni non riveleranno qualcosa di più, le versioni ufficiali a uso dell’opinione pubblica di massa prevarranno. E potrebbero, con buona pace di tutti, effettivamente essere quelle veritiere. Ma nessuno può negare che il mondo è già cambiato. E che l’unico che finora ci ha guadagnato di sicuro è quel piccolo ed estremamente essenziale essere vivente il cui successo esistenziale consiste nell’autoreplicazione.
Foto: Twitter, Difesa.it. China TV, Xinhua
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Armi biologiche e guerra (infinita) al pianeta
Quella delle guerre biologiche moderne e del bioterrorismo è una storia paradossale e contraddittoria. Prima di tutto perché tratta di guerre minacciate più che combattute: anche perché se le si combattesse, le loro conseguenze sarebbero ugualmente catastrofiche per tutti, aggressori e aggrediti. Il che ci deve tranquillizzare solo in parte: il vero pericolo è, infatti, che una guerra biologica globale deflagri senza che si riesca a impedirla, piuttosto che per la deliberata volontà di qualcuno. Poi perché si tratta di una storia misteriosa, piena di coincidenze significative, come accade per molte storie che valga realmente la pena di raccontare. Il punto nodale della storia è rappresentato da un importante Trattato internazionale, che avrebbe dovuto fermare la corsa alla creazione di arsenali di armi biologiche e che, fortemente voluto da un presidente americano che non credeva alla catastrofica potenza di questo tipo di armamenti, è stato demolito da due suoi successori, che erano stati costretti a riconoscerla. La prima coincidenza significativa riguarda il momento in cui il primo presidente prese la decisione di smantellare il programma americano per le guerre biologiche: proprio nei giorni in cui, nei laboratori del suo paese, venivano messe a punto le tecnologie che lo avrebbero messo in grado di produrre virus e altri microrganismi micidiali in quantità praticamente illimitata. Un’altra misteriosa coincidenza concerne un ponderoso libro-inchiesta sul bioterrorismo, che comparve nelle vetrine delle librerie newyorchesi proprio nel giorno del più tremendo attacco terroristico di tutti i tempi e che divenne un bestseller, mentre in tutta l’America si diffondeva il terrore per le lettere all’antrace. L’ultima coincidenza significativa è quella di una nuova pandemia potenziale da virus mutante, che si espande attraverso i continenti negli stessi drammatici giorni in cui gli Stati Uniti decidono di dare inizio alla guerra preventiva contro uno stato sospettato di essere la principale centrale del bioterrorismo mondiale. Ovviamente è molto difficile dire se si è trattato solo di coincidenze...
“All’alba dell’11 settembre 2001 a Washington e a New York si preannunciava una fresca giornata autunnale… alle otto e quarantotto del mattino quel mondo e le sue rosee certezze sparirono in un inferno di fuoco… entro mezzogiorno le due torri errano crollate, trasformandosi in una massa di macerie fumanti. Migliaia di persone erano morte nel più devastante attacco terroristico che il mondo avesse mai visto.” Sono le prime righe della prefazione all’edizione italiana di un best-seller uscito nelle librerie americane proprio in quel fatidico 11 settembre con un titolo profetico: Germs. Nel giro di poche ore il libro balzò in testa alle classifiche di vendita, a causa dell’incredibile coincidenza tra la sua uscita, l’attacco alle due torri e al Pentagono e il successivo bio-attacco all’antrace, che colpì o minacciò diecine di cittadini americani uccidendone cinque e terrorizzando l’intera nazione.
A oltre due anni di distanza il mistero su quei drammatici giorni è sempre più fitto: intorno al ruolo dell’intelligence e di importanti settori istituzionali USA; all’identità degli attentatori e dei misteriosi studenti israeliani o spie del Mossad che li pedinavano; alle speculazioni di borsa ai danni delle compagnie aeree americane nei giorni precedenti; all’identità dei bio-untori all’antrace; alle vere finalità perseguite dalle entità, certamente potenti e determinate, che hanno organizzato tutto questo. Da allora si parla sempre di più di “stati canaglia” in possesso di armi di distruzione di massa, di bioterrorismo, di armi chimiche, per legittimare campagne militari e massacri (come quello, archiviato in fretta, del teatro di Mosca). Si parla e riparla di antrace, di tossina botulinica, di vaiolo. E mentre su Baghdad piovono bombe, da Hong Kong a Montreal scoppia un nuovo bio-allarme planetario, la SARS. Ma sono davvero in pochi ad accorgersi dell’epidemia di suicidi e morti misteriose che colpisce la comunità internazionale di esperti del settore. Sarebbe eccessivo parlare di strategia della tensione globale?
È tempo di cercare qualche risposta alle molte domande che si agitano nelle nostre coscienze. Che significato dobbiamo dare agli eventi drammatici che hanno connotato fin qui in modo terrifico gli inizi di questo III millennio dell’era cristiana? C’è un nesso che li lega e un fondamento in questi allarmi? C’è una regia dietro a tutto questo? Dobbiamo credere a chi indica nel bioterrorismo il possibile fattore scatenante di un incubo senza fine? Le armi biologiche sono davvero così pericolose, o sono semplici spettri che qualcuno agita per avvantaggiarsi in vario modo del terrore indotto, per legittimare la propria strategia di dominio, o anche soltanto per garantirsi finanziamenti sempre più cospicui nel campo della difesa o della ricerca?
Il modo forse più semplice per rispondere all’ultima domanda consiste nel fornire alcune cifre, che ci permettano di capire di cosa stiamo parlando. Secondo stime un po’ semplicistiche, ma attendibili, la potenzialità bio-distruttiva di un grammo di spore di antrace è pari a quella di 700 grammi di plutonio da fissione, di 70 kilogrammi di gas nervino, di 3 tonnellate di bombe al cluster. Se si accettano queste cifre, è evidente che chiunque – presidente di paese imperialista e/o canaglia o Dottor Stranamore – affetto da delirio di onnipotenza, e quindi dotato di scarsi freni inibitori e scrupoli di ordine morale, decidesse di realizzare le proprie mire egemoniche, non potrebbe non tener conto di questi dati, che ci dicono come, per ogni essere umano ucciso da un bombardamento più o meno intelligente con bombe convenzionali, qualora si decidesse di utilizzare spore di antrace (le più facili da costruire e le meno costose tra tutte le armi di distruzione di massa), potrebbero morirne milioni (il rapporto in termini puramente aritmetici sarebbe di 1:3.000.000).
La domanda che sorge spontanea é a questo punto la seguente: ma se le armi biologiche sono talmente potenti, come mai sono state usate, così di rado?
Una prima risposta è d’obbligo. Le armi biologiche sono praticamente incontrollabili e quindi estremamente pericolose; anche per chi le usa. Inoltre, a differenza di ogni altro tipo di arma, possono propagarsi nello spazio e nel tempo teoricamente all’infinito. La più potente bomba nucleare, l’agente chimico più tossico e pervasivo hanno comunque un loro raggio d’azione e una loro potenzialità inquinante, valutabili in anni o decenni e in chilometri. Le armi biologiche no. Le grandi epidemie di peste nera, di influenza, di aids illustrano perfettamente il problema: ogni volta che un microrganismo patogeno comincia a circolare all’interno della biosfera, la durata della sua permanenza in essa e il suo percorso sono assolutamente imprevedibili. Qualsiasi altro essere vivente – uomo, ratto, insetto o microrganismo – può trasformarsi in vettore e condurlo ovunque (al limite persino su altri pianeti, grazie al nostro intervento). Non ci soffermeremo per il momento su questo punto, che pure si rivelerà fondamentale: per il momento ci è sufficiente sottolineare che questa potenziale onnipervasività non contraddistingue i microrganismi utilizzati a fini bellici, ma li accomuna a tutti gli esseri viventi, collegandosi alla loro (e nostra) esigenza/tendenza a competere per sopravvivere. Il che rischia di complicare maledettamente il problema.
La seconda risposta è che qualche tentativo di usare queste armi è stato fatto, anche in tempi recenti. Durante la seconda guerra mondiale, ad esempio, i giapponesi si dimostrarono particolarmente efficienti in questo campo; e pare che anche i tedeschi abbiano avuto un certo interesse per questo gioco al massacro e che a farne le spese sia stato un discreto numero di cavie umane. Affermare che i campi di concentramento giapponesi e germanici siano stati soprattutto immondi laboratori di ricerca sarebbe eccessivo. In compenso ci sono pochi dubbi circa il fatto che tra le decine di migliaia di criminali nazisti e nipponici prelevati da abili talent-scout quali Henry Kissinger e Allen Dulles e condotti nei laboratori USA piuttosto che di fronte ai tribunali militari pronti a giudicarli, ci fosse un discreto numero di scienziati ed esperti in sterminio (come non ci sono dubbi –sia detto per inciso- circa il nesso esistente tra le benemerenze acquisite dai succitati personaggi, e dai loro omologhi in Italia, nello svolgimento di questo delicato compito e la loro successiva fortuna in campo politico in senso lato). Il risultato di questa “contaminazione” fu il perfezionamento della strategia americana in settori nevralgici: in primis nel campo delle armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche, biologiche), ma anche in quello dell’intelligence (e che tra gli strateghi di molti episodi inquietanti della guerra fredda e della strategia della tensione nel nostro paese fossero implicati i nazi-fascisti legati o vicini ai servizi segreti americani non è più un mistero).
In effetti Washington si era resa conto, nel corso della II guerra mondiale, del proprio ritardo in questo campo e anche per questo motivo il presidente Roosevelt aveva denunciato pubblicamente come “terribili e disumane le armi non convenzionali dei nemici dell’America”. Ma tanto giusto sdegno non durò molto e il programma americano per la guerra biologica, partito con un certo ritardo nel 1942, fu in grado di recuperare il tempo perduto, nell’immediato dopoguerra, anche grazie alla preziosa collaborazione degli scienziati giapponesi della famigerata Unità 731, che avevano disseminato la Cina di pulci portatrici del bacillo della peste. Come già nel corso del Progetto Manhattan non mancarono le voci critiche. Theodor Rosebury, un microbiologo veterano del programma per le armi biologiche, ne denunciò l’assoluta incontrollabilità in un libro che fece scalpore. Ma gli sviluppi della guerra fredda e lo scoppio della guerra di Corea fecero – secondo la famosa definizione di Oppenheimer, lo scienziato simbolo del travaglio americano di quegli anni di fronte ai pericoli di una tecnologia sempre più sofisticata applicata in campo militare – il gioco del diavolo: intere città americane furono trasformate in giganteschi laboratori dove venivano liberati germi ritenuti non patogeni, che puntualmente si rivelavano tutt’altro che innocui; migliaia di coreani e cinesi, di campesinos colombiani e boliviani, di eskimesi e cubani furono sterminati dai bacilli della peste e del colera e dal virus della dengue.
Per una ventina di anni di Guerra Fredda entrambi gli schieramenti seguitarono nel loro pericoloso gioco: gli esperimenti in vitro e in vivo, su nemici e ignari cittadini, continuarono e furono messi a punto batteri, virus e tossine sempre più micidiali. Di tanto in tanto qualche notizia arrivava sui media e cominciarono a circolare romanzi e film di fantascienza in cui congreghe di scienziati e generali paranoici riuscivano a impadronirsi di virus letali per impossessarsi del governo del mondo.
Poi accadde qualcosa, che avrebbe cambiato il corso della storia. Presso i vertici politico-militari delle grandi potenze si fece strada l’idea che la cosa più importante era mantenere costosa la guerra. Le armi biologiche erano infatti sempre più pericolose e, tutto sommato, economiche. Se si fosse permesso a tutti i paesi sottosviluppati del mondo di averle nei propri arsenali, gli equilibri planetari sarebbero mutati.
Ma per meglio capire quel che veramente accadde, è utile ricordare come e perché americani e inglesi giunsero a quella che potrebbero essere costretti, un giorno, a riconoscere come la più sciagurata delle scelte strategiche.
LA BIOLOGICAL WEAPONS CONVENTION: BREVE STORIA DI UNA STRATEGIA IMPERFETTA
La decisione praticamente unilaterale da parte degli Stati Uniti di smantellare, nel 1969, i propri programmi di guerra batteriologica, è ancora oggi interpretata come uno dei non molti meriti indiscussi della prima amministrazione Nixon. Tanto più che, mentre nel 1972 Gran Bretagna e Stati Uniti furono i principali sponsor della Convenzione sull’interdizione delle armi biologiche, nel luglio del 2002, nell’ambito della generale operazione di smantellamento dell’architettura internazionale di sicurezza avviata da G.W.Bush, il sottosegretario USA incaricato della lotta contro la proliferazione respinse in blocco le proposte migliorative del trattato, avanzate dalla Francia e da altri stati occidentali, affermando che queste andavano contro gli interessi commerciali e di sicurezza americani, senza peraltro garantire un rallentamento nella proliferazione delle armi biologiche.
Solo un breve resoconto di quanto veramente accadde può aiutarci a capire come anche in questo caso il giudizio morale e politico intorno a queste due opzioni strategiche in apparenza radicalmente opposte non dovrebbe essere formulato con troppa leggerezza.
Erano gli anni della crisi americana in Vietnam. Sotto la crescente pressione dell’opinione pubblica interna, seguita all’offensiva del TET che aveva portato i Vietcong fin dentro l’ambasciata americana di Saigon, Nixon aveva dovuto accettare il dialogo con Hanoi. Il movimento pacifista era in crescita tanto negli Usa (Allen Ginsberg, Bob Dylan, Joan Baez) che nella vecchia Inghilterra (Bertrand Russel) e rischiava di avere un impatto culturale e politico destabilizzante. Le armi di distruzione di massa erano ovviamente il principale oggetto del contendere. A quel punto gli anglo-americani fecero un ragionamento machiavellico che si sarebbe rivelato del tutto errato: per indebolire i paesi che, non essendo in grado di produrre armi nucleari, per le quali è necessaria una tecnologia sofisticata e costosa, avrebbero dovuto accontentarsi delle armi biologiche (già allora definite il “nucleare dei poveri”) sarebbe stato utile proporre una Convenzione internazionale per la messa al bando delle stesse. A lanciare l’idea fu il premier inglese Harold Wilson, su suggerimento dei suoi consiglieri ed esperti militari, convinti della scarsa affidabilità delle armi biologiche e al contempo incapaci di riconoscerne le potenzialità. Nel novembre del ’69 anche Nixon seguì la linea di Londra e decise lo smantellamento dell’intero programma americano per le guerre biologiche. I suoi sostenitori cercarono di dimostrare che quella del presidente era stata una scelta morale, almeno in parte legata alla campagna portata avanti sul Washington Post e presso vari comitati etici dal premio Nobel Joshua Lederberg, il quale chiedeva da anni l’immediata sospensione di ogni sperimentazione nel campo degli agenti patogeni, che avrebbe condotto rapidamente l’umanità al genocidio. La verità è ben diversa: con ogni probabilità le parole dello scienziato sarebbero cadute ancora una volta nel vuoto se Nixon non avesse condiviso le analisi degli esperti anglo-americani circa lo scarso valore militare di quelle armi e l’enorme superiorità, come deterrente, delle armi atomiche. Come ampiamente dimostrato da Susan Wright, che a sostegno della sua tesi ricordava lo sprezzante commento del presidente al suo portavoce, William Safire: If someone uses germs on us, we’ll nuke them”.
La scelta di Londra e Washington di promuovere la famosa Biological Weapons Convention del 1972 ebbe insomma un solo scopo: il perseguimento di una “asimmetria strategica” tra i pochi stati ricchi e potenti (nella lista bisogna includere Israele, la cui capacità nucleare era stata da poco confermata dalla CIA) in grado di proteggersi grazie al deterrente nucleare e i molti stati poveri e im-potenti, privati anche del “nucleare dei poveri”.
A posteriori possiamo affermare che si trattò di un errore colossale. Le armi biologiche sono indubbiamente poco controllabili; ma, come detto, la loro potenza è spaventosa, superiore a quella di qualsiasi altra arma. E mentre gli Stati Uniti abbandonarono, almeno in parte, questo settore, la Convenzione del 1972 non ebbe gli effetti sperati, perché molti altri paesi, anche tra i firmatari, decisero di agire in modo opposto. I russi, in particolare, aumentarono i loro investimenti nel settore, organizzando negli anni settanta e ottanta almeno cinque grandi impianti di produzione e impiegando nell’ambito del progetto segreto Biopreparat diecine di migliaia di scienziati e di tecnici.
Le conseguenze drammatiche di questa situazione si manifestarono con la crisi dell’URSS. Se sul piano economico e politico circa l’implosione dell’Impero sovietico (fine di un equilibrio bipolare; via libera alla globalizzazione neo-liberista ecc.) sono possibili valutazioni diverse, in riferimento al problema che stiamo trattando è fuor di dubbio che il crollo dell’URSS ebbe conseguenze catastrofiche.
La prima fu la diaspora di centinaia di scienziati e tecnici sovietici che, impegnati per anni in Biopreparat, si trovarono improvvisamente nelle condizioni di offrire la propria esperienza e competenza tecnica su un mercato nel quale tali discutibili virtù erano molto richieste e apprezzate. La seconda fu la conseguente diffusione di armi biologiche sofisticate e pericolose in una delle aree geografiche più instabili del pianeta (comprendente in particolare alcuni paesi islamici e le repubbliche ex-sovietiche) e in un territorio totalmente disastrato: l’esempio più emblematico di questa catastrofe è oggi rappresentato dall’ex base segreta russa nell’isola di Vorzozdenie, ormai praticamente congiunta alla costa di quello che una volta era il Lago d’Aral e ridotta a una sorta di sarcofago pieno di spore di antrace e forse di bacilli di morva, tularemia e peste e di virus del vaiolo e di altre malattie emorragiche che rettili e ratti potrebbero disseminare sulla terra ferma. Anche la tanto pubblicizzata pericolosità dell’Irak in questo campo ebbe, almeno in parte, le stesse origini.
Ma con la fine della guerra fredda e il crollo dell’Impero sovietico la strategia americana cambiò radicalmente e in modo apparentemente paradossale. Iniziarono gli anatemi e le liste di proscrizione degli “stati canaglia” sospettati, spesso a ragione, di detenere armi di sterminio di massa; poi si passò alle ritorsioni economiche e alle minacce militari; infine alla guerra preventiva. Un fatto è certo: gli esperti americani e anglosassoni dovettero riconoscere i propri errori di valutazione e correre ai ripari. Eppure le amministrazioni Clinton e Bush non fecero nulla per rafforzare la Convenzione per l’abolizione delle armi biologiche, anzi fecero di tutto per boicottarla, impedendo, a chiunque cercasse di migliorala e di rendere efficaci i controlli, di ottenere risultati tangibili. Come mai?
Qualche giorno prima del fatidico 11 settembre Judith Miller e gli altri autori del già citato Germs avanzarono sul New York Times, una tesi interessante e, almeno in parte, accettabile: gli Stati Uniti stavano cercando di recuperare il tempo perduto e avevano in cantiere una nuova bomba vettore per materiale biologico, un ceppo di antrace geneticamente modificato in modo da resistere a qualsiasi farmaco noto e altre chicche dello stesso genere. La decisione di Bush di affossare in modo definitivo non solo la Convenzione voluta da Nixon (dichiarandola inutile e pericolosa per la sicurezza degli States) ma l’intera strategia preventiva nei confronti delle guerre biologiche, poteva essere spiegata con il timore che la nuova strategia americana venisse scoperta. L’articolo della Miller fece scalpore e contribuì al lancio del libro. Tanto più che nei giorni seguenti a Manhattan scoppiò l’inferno e qualcuno si premurò di dimostrare all’America e al mondo la potenza devastante nascosta in pochi nanogrammi di spore di antrace. Microbiologi insigni negarono qualsiasi valore difensivo alle sperimentazioni genetiche sull’antrace e molti accusarono Washington di voler utilizzare in modo strumentale le minacce bio-terroristiche (del resto con ogni probabilità made in USA) per giustificare i propri pericolosi progetti in nome di una strategia di difesa biologica del tutto irrealizzabile. Eppure la tesi della Miller spiega solo in parte la nuova strategia di Washington. Tanto più dopo che l’11 settembre ha cambiato ulteriormente il quadro generale della situazione, costringendo non solo gli Stati Uniti, ma l’intera società civile mondiale a scoprire la propria drammatica fragilità.
Dal giorno in cui la massima potenza del pianeta ha dovuto riconoscere la propria vulnerabilità di fronte alla disperata e lucida follia di un gruppo di kamikaze; in cui il mondo intero è stato costretto ad ammettere che persino il più mastodontico arsenale bellico della storia si rivelerebbe inutile, qualora un pugno di terroristi ben organizzati decidesse di colpire al cuore le città americane, disseminando nelle affollate subways delle ore di punta qualche manciata di polverina carica di spore; in cui la stessa rappresentazione collettiva degli equilibri planetari e dell’intera storia dell’uomo è cambiata… non sarebbe stato logico attendersi che Bush tornasse sui suoi passi, riconoscendo che la salvezza del pianeta passa necessariamente per una Convenzione, sottoscritta da tutti i paesi e dotata di controlli rigorosi e capillari da parte di ispettori internazionali? Ma Washington, ancora una volta, segue una linea totalmente diversa. La Convenzione e i protocolli non vengono più neppure citati nei documenti ufficiali e qualsiasi trattativa diplomatica, qualsiasi regime fondato su controlli internazionali vengono accantonati e sostituiti da una strategia politico-militare durissima, fatta di minacce, di ritorsioni, di bombe. Come mai? Quella di Washington è soltanto la logica orgogliosa della superpotenza convinta di avere diritto al dominio del mondo e decisa a non rinunciare a un tenore di vita insostenibile e fondato su strategie economico-politiche non più accettate dal resto del mondo? E ancora: è mai possibile che Bush e i falchi del Pentagono intendano puntare su una sorta di “worlwide biological arms race”, di sfida all’ultimo virus che potrebbe distruggere l’intero pianeta, come sembra sostenere la Miller?
Per rispondere a queste domande può essere utile rileggere quella che è a tutt’oggi forse l’analisi più lucida delle “origini geopolitiche” e delle successive vicissitudini della Convenzione del 1972: quella di Susan Wright. La sua ricostruzione dei continui cambiamenti di strategia, da parte di Washington, è infatti estremamente rigorosa e va dritta al cuore del problema: partendo dall’intuizione che è necessario tornare a quei fatali anni ’69-72, la Wright capisce infatti che c’è qualcosa che non funziona, che non può funzionare nella stessa Convenzione e che questo qualcosa ha a che vedere con la difficoltà di distinguere tra usi difensivi e offensivi delle ricerche sui microrganismi e, almeno a partire dagli anni ’80, con gli enormi interessi economici collegati al nuovo settore delle biotecnologie genetiche. La Convenzione, infatti, autorizzava lo sviluppo, la produzione e lo stoccaggio di agenti biologici patogeni “se utilizzati per la produzione di mezzi difesa quali vaccini, terapie speciali, tute preventive.” Inoltre, non erano previste procedure e strumenti di controllo. Quando poi, nel 1995, i firmatari della Convenzione decisero di negoziare un protocollo di verifica e controllo, si scontrarono con ostacoli insuperabili, messi in atto dall’amministrazione Clinton, che aveva dovuto cedere alle pressioni delle industrie biotecnologiche e farmaceutiche. Infine la nuova amministrazione Bush, il 25 luglio 2001, respinse in toto il protocollo, definendolo “non solo inefficace, ma pericoloso per la sicurezza nazionale americana”.
Ma chi volesse realmente capire cosa sia cambiato nei 30 anni che separano la Convention, così fortemente voluta da Nixon, dal suo definitivo sabotaggio da parte di Clinton e Bush dovrebbe tornare a quei fatidici anni per un’altra ragione. Proprio in quegli anni infatti, nel silenzio dei laboratori della nazione più potente del mondo, si ponevano le basi di una rivoluzione tecnologica che avrebbe inciso in modo drammatico sulla nostra storia.
UNA RIVOLUZIONE GRAVIDA DI CONSEGUENZE
Abbiamo cercato di dimostrare che il programma politico di Wilson e Nixon era basato su una valutazione del tutto errata delle potenzialità delle armi biologiche ed ebbe conseguenze catastrofiche. A parziale giustificazione dei due uomini politici bisogna però ammettere che il giudizio circa la scarsa affidabilità ed efficacia di queste armi terribili era in quegli anni piuttosto diffuso, persino tra i maggiori esperti mondiali, anche perché le tecniche di sperimentazione erano ancora rudimentali. Quello che i poco lungimiranti ideatori dell’asimmetria strategica nel campo degli armamenti non potevano sapere, è che proprio in quegli stessi anni e proprio nei laboratori americani, si stava realizzando la rivoluzione tecnologica che avrebbe sconvolto il mondo della genetica e fornito agli scienziati gli strumenti necessari a trasformare innocui microrganismi in microscopiche bombe intelligenti, più potenti di qualsiasi altra arma mai costruita. Proprio nel 1969 fu scoperta la DNA polimerasi RNA dipendente, che di lì a qualche anno sarebbe diventata famosa, quale principale arma del virus dell’Aids, col nome di trascrittasi inversa: l’enzima che consente al genoma di un RNA-virus di riprodursi a partire dal DNA, con un meccanismo speculare a quello, descritto da Watson e Crick, e considerato fino ad allora l’irrefutabile dogma centrale della moderna genetica. Appena un anno dopo, nel 1970, furono isolati il primo enzima di restrizione, una sorta di forbice biologica prodotta dai batteri per tagliare le molecole di DNA riconosciute come estranee, e la DNA ligasi, un enzima in grado di formare legami covalenti tra due frammenti di DNA. I biotecnologi di tutto il mondo si trovarono così d’un sol colpo a loro disposizione i principali strumenti di lavoro per quel vero e proprio taglia-incolla che è l’ingegneria genetica.
Da quel momento migliaia di scienziati seri e di apprendisti stregoni poterono manipolare e modificare con una certa precisione il codice stesso della vita. Nacquero così i cosiddetti OGM: virus, batteri e organismi superiori “artificiali”, cioè non prodotti da un processo antico di miliardi di anni e regolato da naturalissimi meccanismi di feed-back, ma privi di qualsiasi interazione regolatrice con gli altri esseri viventi, impegnati in un complesso processo di co-evoluzione, cooperazione e competizione per la vita. Ma quando, di lì a poco, Stanley Cohen e Charles Boyer produssero in vitro la prima molecola chimerica di DNA, non furono in molti a capire l’enorme portata e la pericolosità dell’evento.
Non è facile dimostrare quale peso abbia avuto, anche in questo senso, l’errata valutazione delle potenzialità delle armi biologiche da parte dei vertici politico-militari anglo-americani. Difficile sarebbe, per contro, sopravvalutare il peso dei fattori economici.
Se é vero, infatti, che alcuni scienziati, memori di quanto avvenuto 30 anni prima col progetto Manhattan, proposero uno stop deciso alle sperimentazioni, col fine dichiarato di indagare più a fondo circa la possibile pericolosità delle nuove tecniche di manipolazione genetica, è altrettanto innegabile che la loro consapevole prudenza fu ben presto soppiantata dalla curiosità scientifica, e dalla prospettiva di enormi profitti. Nulla illustra meglio questo rapido cambio di rotta della vicenda personale del premio Nobel Paul Berg, il quale fu tra i primi a proporre una moratoria sulla ricerca genetica, organizzò il famoso convegno di Asilomar (1975), nel corso del quale un nutrito gruppo di scienziati cercò di stabilire un rigido protocollo di sicurezza per le ricerche biotecnologiche e finì con il dar vita alla Genientech (1976), la prima azienda biotech di successo. Da quel momento la legge del profitto condizionò pesantemente le strategie di ricerca e le scelte normative in una materia in cui a decidere avrebbero dovuto essere soltanto la coscienza e la responsabilità verso l’altro, l’ambiente, le generazioni future. Quando arrivarono i primi brevetti concernenti gli esseri viventi (1980), fu chiaro che fermare la sperimentazione bio-genetica sarebbe stata un’impresa disperata. Gli scienziati più coscienziosi continuarono a invocare trattati e convenzioni in grado di impedire quantomeno lo splicing di geni finalizzato alla produzione di nuove armi batteriologiche; ma fu evidente a tutti che si trattava di un’impresa donchisciottesca. In primis per i due motivi segnalati dalla Wright: la difficoltà di distinguere tra usi offensivi e difensivi della ricerca biotecnologica e l’enorme business derivante dalla rivoluzione biotech. Ma anche e soprattutto per la quasi impossibilità di porre un confine netto tra la ricerca biotech finalizzata alla messa a punto di vaccini e di altri importanti presidi terapeutici e le sue applicazioni in campo militare.
A questo punto le cose si complicavano maledettamente: fu infatti evidente che la Convenzione del 1972, o meglio qualsiasi trattato che avesse voluto impedire le guerre biologiche, per essere realmente efficace, avrebbe dovuto imporre limiti, regole e controlli all’intera ricerca nel campo dell’ingegneria genetica. E questo rischiava di interferire con gli enormi interessi economici che le multinazionali avevano nel settore; con i programmi di ricerca più avanzati in campo bio-medico; con le esigenze di segretezza propri degli establishment politico-militari.
E’ solo a questo punto che comincia a chiarirsi l’apparentemente paradossale capovolgimento di strategia avvenuto ai vertici politico militari della massima potenza planetaria.
Rispetto a Nixon, a Wilson e agli esperti militari di allora, i successivi inquilini della Casa Bianca e del Pentagono furono costretti a riconoscere il notevole ritardo degli States in questo campo e a correre ai ripari. La tesi della Miller a proposito delle nuove ricerche su microrganismi geneticamente modificati e strumenti sofisticati per il loro utilizzo bellico o terroristico si inserisce bene in questo quadro, anche se andrebbe riferita a una fase precedente.
Ma soprattutto Clinton, Bush e i loro consiglieri avevano ormai capito perfettamente che nessuna Convenzione avrebbe impedito a “stati canaglia” e terroristi, di puntare sulle uniche armi in grado di destabilizzare l’Impero; che i controlli in questo campo sarebbero non solo inaccettabili per migliaia di laboratori di ricerca e per le multinazionali che hanno investito miliardi di dollari in questo settore, ma praticamente impossibili, visto che la produzione del “nucleare dei poveri” non richiede particolari strutture (un bioreattore per la costruzione di germi micidiali ha dimensioni estremamente ridotte, al punto che potrebbe essere trasportato in un furgone); che persino un singolo terrorista solitario o un folle potrebbero mettere in ginocchio gli States, vista la facilità con cui è oggi possibile acquistare (per corrispondenza!) microrganismi patogeni e indurre in essi micidiali modifiche.
La dottrina Bush della guerra preventiva, così mirabilmente esposta nell’ormai famoso The National Security Strategy of the United States of America del settembre 2002 e persino l’attuale III guerra del Golfo potrebbero essere valutate in modo più corretto, alla luce di questi dati: oltre che come l’arrogante diktat politico-militare dell’Impero colpito al cuore, come una quasi necessità strategica. E’ come se Bush si fosse trovato nelle condizioni di dover ripetere -e non soltanto ai cosiddetti stati canaglia e ai possibili terroristi o pazzi che potrebbero colpire l’America con l’arma più subdola e potente, ma a tutto il mondo- la minaccia espressa 33 anni prima da Nixon: “if you’ll use germs against us, we’ll nuke you”. Ma tra la ruvida minaccia verbale di Nixon e quella, ancora più violenta, perché accompagnata dalle bombe, di G.W. Bush esiste una differenza fondamentale: se la prima esprimeva la posizione di un potente, convinto di avere il coltello dalla parte del manico e di poterlo utilizzare per intimidire i nemici dell’America, quelle di Bush rischiano di rivelarsi minacce del tutto prive di senso, verso un Nemico infinitamente più potente, elusivo, pervasivo e refrattario a qualsiasi tipo di potere politico o militare.
Siamo così giunti all’ultimo mistero.
BIO-TERRORE E SARS
Settembre 2001: il terrore piomba su New York mentre una mano assassina confeziona e spedisce missive di morte all’antrace. Difficile pensare a una semplice coincidenza. Ma a tutt’oggi nessuno ha offerto una ricostruzione accettabile dei fatti.
Marzo 2003: americani e inglesi bombardano e invadono l’Iraq, mentre un misterioso virus killer dilaga in estremo oriente, raggiunge il Nord America, minaccia l’intero pianeta. Apparentemente in questo secondo caso è ancora più difficile trovare un nesso tra i due eventi. Ma è proprio così? Nei giorni in cui il misterioso virus mutante che è causa della SARS sembrava destinato a estendersi a tutto il pianeta, esperti e uomini politici di tutto il mondo si prodigarono a gettare acqua sul fuoco e, soprattutto, a negare recisamente qualsiasi accostamento tra Aids e SARS. Come mai? E’ evidente che se il fine primo fosse stato davvero quello di impedire il dilagare dell’epidemia, sarebbe stato meglio diffondere l’allarme e consolidare il “cordone sanitario” intorno ai mega-focolai di partenza. Se questo non è accaduto è soltanto per un motivo: The show should go on. O piuttosto: The global business should go on. Abbiamo già sottolineato il probabile ruolo svolto dalla Big Pharma e dalle imprese biotech nel cambiamento di strategia che avrebbe indotto gli USA a boicottare la Convention del 1972. Nel caso della SARS (e dell’Aids) il problema è analogo: se le guerre biologiche non possono essere fermate perché comandano la Big Pharma e la Monsanto, le epidemie rischiano di dilagare perché comandano le Corporations in genere.
Ma politici ed esperti, nel negare tanto recisamente il parallelismo posto da molti “profani” tra Aids e SARS, hanno torto anche sul piano scientifico. E non soltanto perché, se l’Aids è stata la prima pandemia della storia e uno dei simboli-chiave della patologia della globalizzazione (o piuttosto la metafora di una globalizzazione in sé patologica), la SARS rischia di diventare la seconda. Ma anche perché in entrambi i casi all’origine del dramma potrebbe esserci stato un incidente analogo: la fuoriuscita accidentale di virus ricombinanti o comunque ingegnerizzati da qualche laboratorio.
Torniamo ai primi anni ’80: alle origini, tuttora misteriose, dell’AIDS. Come si ricorderà già allora i sovietici accusarono gli Stati Uniti di essere i veri responsabili dell’epidemia. L’accusa fu poi smentita e ritrattata. Con ogni probabilità si trattava di un’accusa infondata, ma non peregrina. Probabilmente l’Hiv non è il disgraziato prodotto di esperimenti finalizzati alla messa a punto di una tremenda arma biologica; all’origine dell’epidemia potrebbe esserci la slatentizzazione (magari occorsa durante le sperimentazioni per la produzione di un vaccino) di un virus rimasto nascosto per millenni nel genoma di una scimmia. Tanto più che non si tratta dell’unico retrovirus-killer comparso sulla scena in quegli stessi anni (si pensi al Marburg e all’ Ebola) che avrebbe appunto come serbatoio naturale le scimmie.
Già allora illustri scienziati sottolinearono il possibile nesso tra le biotecnologie genetiche e la comparsa di nuovi virus patogeni. Era soltanto un caso che questi virus fossero comparsi (o ameno fossero divenuti patogeni per l’uomo), negli stessi anni in cui venivano messe a punto gli strumenti e le tecniche adatte a riconoscerli e a costruirli? Ed è soltanto un caso, se da quando gli esperimenti su virus e altri vettori genetici sono di routine nei laboratori di tutto il mondo, le malattie da “nuovi virus” sono diventate un problema drammatico ed enormemente sottovalutato?
A pochi giorni dallo scoppio della SARS, la grande “biotecnologa pentita” Mae Wan Ho, citando uno studio, recentemente pubblicato sul Journal of Virology e concernente la creazione di nuovi ceppi ricombinanti di coronavirus, ha sottolineato con forza la pericolosità di simili manipolazioni, oggi di routine in migliaia di laboratori, in grado di creare in pochi minuti milioni di particelle virali mai esistite nei quattro miliardi di anni di evoluzione che ci hanno preceduto e in grado di “saltare” da un ospite all’altro. Ma le critiche di Mae Wan Ho a questo tipo di esperimenti vanno bene al di là del problema contingente dell’origine della SARS: sotto accusa è ingegneria genetica in quanto “tecnologia finalizzata a trasferire orizzontalmente i geni tra specie non destinate a incrociarsi tra loro”. Come a dire che i pericoli per l’intera biosfera, non derivano da un cattivo uso del biotech, e cioè dal bioterrorismo e dalle guerre biologiche, ma da una tecnologia che infrange deliberatamente le barriere specie-specifiche che la Natura ha costruito a difesa delle singole specie viventi.
La SARS esemplifica perfettamente questo genere di pericoli. In special modo se si crede alla “storiella cinese” del ricercatore-veterinario che, cercando di metter a punto un vaccino contro una infezione aviaria (dei polli) si sarebbe infettato con un virus ricombinante a RNA (quindi fortemente instabile) della famiglia dei coronavirus, divenuto patogeno per l’uomo e lo avrebbe trasmesso al cognato, al personale di un albergo, alle infermiere di un ospedale e così via.
Ma se sul piano etico e politico il fatto che tanto all’origine della SARS che dell’Aids ci sarebbe un incidente, piuttosto che un attacco bio-terroristico o un esperimento di guerra biologica, può essere rassicurante, sul piano igienico-sanitario il discorso è esattamente opposto. Se le prime pandemie da virus mutanti fossero frutto di un programma strategico mostruoso, sarebbe terribile; ma se tutto questo è, come sembra, il risultato di una tecnologia diffusa in tutto il pianeta e ingovernabile, la situazione è assai più grave.
Se a questo punto cercassimo di tratteggiare due possibili modelli epidemiologici per Aids e SARS, ci troveremmo a dover sottolineare alcune somiglianze e differenze significative: a favorire la lenta diffusione pandemica dell’Aids, ad esempio, sono state la bassa contagiosità, il lungo periodo di incubazione e di asintomaticità dei portatori, la lenta e inesorabile progressione distruttiva del virus nei confronti dei sistemi difensivi dell’organismo umano. Per quanto concerne la SARS il discorso sarebbe almeno in parte diverso, trattandosi di un virus più contagioso, probabilmente più aggressivo, ma in fin dei conti meno devastante: almeno in base ai dati clinici fin qui registrati, dai quali si potrebbe indurre una mortalità oscillante tra il 4 e il 10%. Bisogna però sottolineare che trattandosi di un virus ricombinante è possibile che la sua tendenza a mutare determini l’emergere di mutanti più aggressivi che potrebbero dar vita a quadri clinici più gravi e peggiorare il quadro epidemiologico già preoccupante.
Ma il paragone tra Aids e SARS dovrebbe soprattutto esser visto in relazione al futuro: alla possibilità di impedire alla SARS di divenire la seconda pandemia/endemia globale. In questo senso bisognerebbe chiedersi prima di tutto: cosa non ha funzionato nella prevenzione dell’Aids (non si dimentichi che in pochi anni l’Hiv ha infettato almeno 60 milioni di persone e che l’epidemia procede alla velocità di un contagio ogni 5”). La risposta sarebbe abbastanza facile: non si è riusciti a controllare il rapido processo di degrado sociale e morale che ha colpito le metropoli del III mondo e le periferie urbane del Nord del pianeta, alimentato dai circuiti criminali legati al grande business delle armi, del narcotraffico, della prostituzione. E anche su questo piano è evidente come rifiutarsi di riconoscere i punti di contatto tra le due situazioni non abbia senso, se è vero che in entrambi i casi il problema rischia di diventare drammatico e irrimediabile perché il Business globale nelle sue due componenti, sempre più interconnesse, legale e criminale, deve andare avanti.
LA BIO-GUERRA BIOLOGICA GLOBALE
Ma per avere un quadro sufficientemente completo della situazione, dobbiamo fare un ulteriore passo avanti e prendere in esame un aspetto se possibile ancora più inquietante: quello che potremmo definire la guerra (biologica) globale al pianeta.
Nel suo famoso The Biotech Century Jeremy Rifkin sottolinea come la caratteristica fondamentale che distingue le armi biologiche – formate da virus, batteri, funghi e protozoi - da tutte le altre sia la loro tendenza, connessa alla loro stessa natura di esseri viventi, a diffondere nella biosfera, occupando nicchie vitali e a colonizzare altri esseri viventi utilizzandoli come propri vettori.
Il discorso di Rifkin è quasi perfetto. Ma contiene una inesattezza, minima ma significativa. Tra gli agenti patogeni più importanti utilizzati o messi a punto per le guerre biologiche ci sono, come visto, i virus. Il fatto è che i virus non sono esseri viventi a tutti gli effetti, ma frammenti incapsulati di codice genetico: mine genetiche vaganti dall’origine incerta e alla perenne ricerca di esseri viventi da colonizzare. La caratteristica invasività e la tendenza a parassitare la vita, propria delle armi biologiche, non è quindi legata soltanto al fatto di essere costituite da esseri viventi, ma al fatto di essere veicoli di un codice genetico!
Comunque Rifkin ha ben chiari i rischi di tutto ciò, quando parla di un inquinamento genetico planetario che potrebbe produrre pandemie mortali in grado di distruggere su vasta scala le piante, gli animali e la stessa vita umana; e di un futuro scenario nel quale stati e potentati economici e/o criminali/terroristici si fronteggino e competano per il controllo del pianeta, utilizzando virus e altri microrganismi geneticamente modificati per colpire le risorse alimentari o le stesse popolazioni. Tutto questo potrebbe apparire eccessivo. Il fatto è che non si tratta di uno scenario fantascientifico, ma attuale. E questo non soltanto perché, come visto, diecine di “nuovi” virus e di altri microrganismi divenuti patogeni per l’uomo a causa di manipolazioni genetiche accidentali o volontarie circolano già per le nostre città e mietono milioni di vittime; non soltanto perché negli ultimi decenni gli attacchi bio-agro-terroristici finalizzati a colpire le economie e a indebolire le popolazioni rivali o nemiche non sono stati infrequenti; ma per un dato di fatto ancora più semplice e innegabile: se ciò che rende più invasive e pericolose di tutte le altre le armi biologiche, e in particolare i virus g.m. é il loro essere semplici frammenti di codice genetico circolanti e, quindi, la loro capacità di parassitare gli esseri viventi, di competere con essi e, in taluni casi, di inserirsi nel loro genoma modificandolo, è evidente che l’inquinamento genetico del pianeta, da parte di centinaia di varietà di organismi geneticamente modificati (Ogm) è già in atto da anni e rappresenta una vera guerra non dichiarata all’intera biosfera. Un pericolo immenso, forse il maggiore pericolo mai corso dall’umanità e del tutto non prevedibile, almeno in tempi brevi, che fa di noi –per citare una definizione particolarmente icastica, cara a Gianni Tamino- “le cavie inconsapevoli di un esperimento senza ritorno”
IMPERO BIOTECH o WORLWIDE BIOLOGICAL ARMS RACE ?
L’intero discorso fatto fin qui può essere riassunto in questi termini: nessuno può oggi affermare con sicurezza che gli effetti e i prodotti delle biotecnologie con finalità sulla carta “buone” non si rivelino, specie nel medio-lungo periodo, altrettanto pericolose di quelle con finalità “cattive”. E questo sia per quanto concerne le cosiddette “biotecnologie rosse”, destinate ad applicazioni in campo medico e farmacologico in genere (produzione di farmaci, vaccini, vettori genetici, animali geneticamente modificati per xenotrapianti), che per quanto concerne le ”biotecnologie verdi”, finalizzate a ottenere miglioramenti in campo agro-alimentare.
E questo non solo per la facilità con cui si possono verificare incidenti di percorso più o meno imprevedibili (vedi Aids, SARS e, più in generale, creazione di virus ricombinanti o slatentizzazione di (retro)virus patogeni negli ultimi decenni), ma anche per l’intrinseca pericolosità di queste tecnologie (specialmente per ciò che concerne i vettori, gli xenotrapianti e la diffusione nell’ambiente di OGM in genere).
Tra i tanti scenari catastrofici che sono stati immaginati negli ultimi anni da parte dei numerosi critici della globalizzazione neoliberista, intesa come modello sistema di sviluppo economico, politico, tecnologico e culturale in senso lato imposto dal Nord del mondo al resto del pianeta più o meno recalcitrante, ce ne sono – per quanto concerne il tema delle guerre biologiche in senso lato - almeno tre che andrebbero tenuti in debita considerazione.
Il primo scenario è quello, descritto dalla Miller, della “worldwide biological arms race”: di un pianeta caratterizzato da una geopolitica stravolta, incentrata su una folle corsa alle armi di sterminio di massa più sofisticate e terribili e sul sogno demoniaco del definitivo possesso dell’arma biologica più letale e del suo antidoto; da strategie mediatiche finalizzate a indurre nelle coscienze dei cittadini una condizione di terrore subliminale e costante; da un’economia drogata e distorta dai giganteschi costi dei programmi di difesa biologica e di controllo militare e sanitario capillare del territorio. La grande quantità e varietà di micidiali agenti patogeni geneticamente modificati, presenti nei laboratori di diecine di paesi (molti dei quali facenti parte della famosa lista degli stati canaglia, accusati di ospitare, proteggere, addestrare e utilizzare terroristi), rende questo scenario ormai poco probabile: la strada quasi obbligata non è quella della messa a punto di armi biologiche più o meno potenti, ma piuttosto quella di trovare un accordo che permetta il controllo di una situazione esplosiva.
Il secondo scenario è quello definito da Mae Wan Ho “Impero Biotech”: un mondo orwelliano in cui “multinazionali senza volto controllano ogni aspetto della (nostra) vita, dal cibo che mangiamo ai bambini che mettiamo al mondo” e fondato sulla promessa del perfezionamento continuo della specie e dei singoli individui mediante micro-interventi di terapia genica mirata o di sostituzione di tessuti e organi danneggiati (o semplicemente invecchiati) con pezzi di ricambio ottenuti da colture di cellule staminali provenienti dal sangue del cordone ombelicale o da cellule fetali, prelevate alla nascita o durante la gestazione di ogni futuro individuo e conservate in apposite banche. Ma anche sull’uso sempre più diffuso di animali transgenici: ratti, conigli, scimpanzé e mucche trasformati in veri e propri laboratori chimici viventi per la produzione di farmaci e di altre molecole utili, e soprattutto maiali, migliaia, possibilmente milioni di maiali, trasformati in donatori di tessuti e organi “umanizzati” per quello che è il sogno di ogni trapiantologo che si rispetti: lo xenotrapianto, ove non si riesca, superati alcuni residui scrupoli di ordine morale, a far divenire routine la clonazione parziale o produzione di replicanti per ogni singolo neonato (previo blocco dell’organogenesi cerebrale, onde impedire l’eventuale formazione o discesa dell’anima, nell’ipotesi che una simile entità metafisica esista e necessiti di una sua sede corporea) da utilizzare in futuro come fonte di organi e tessuti perfettamente identici e compatibili. Il tutto nell’ambito di una “Nuova Creazione”, una sorta di neo-biosfera sempre più artificiale, popolata di organismi creati in laboratorio, selezionati per fini di profitto e brevettati: una realtà povera (sul piano biologico) e quindi fragile, squilibrata e priva di quei fondamentali meccanismi di autoregolazione e feed-back che ne hanno garantito per miliardi di anni l’esistenza e l’evoluzione.
Jeremy Rifkin dichiarò una ventina di anni fa che se si fosse permesso a poche diecine di multinazionali impegnate nel Biotech di acquisire con i brevetti il controllo del patrimonio genetico delle specie viventi, l’intera geopolitica del XXI secolo sarebbe cambiata. Pochi capirono allora le parole di Rifkin. Oggi possiamo affermare che se si permetterà ad alcune migliaia di individui - speculatori valutari, grandi azionisti e managers delle cosiddette Life Science Industries (termine Orwelliano, utilizzato dalle corporations genetico-industriali per definire se stesse) - di acquisire in tal modo il controllo della biosfera, vivremo in una sorta di Stato Globale totalitario-tecnocratico nel quale le nostre coscienze e il nostro inconscio saranno perfettamente controllati da chi gestisce i grandi canali dell’in-formazione mediatica e i nostri corpi gestiti da chi avrà su di noi potere di vita e di morte.
Ma esiste anche un terzo scenario, che è tutto sommato quello più probabile, anzi in buona misura già concretamente realizzato e includente gli altri due.
La globalizzazione neoliberista è essenzialmente imposizione a tutto il pianeta di un modello-sistema di vita, quello occidentale, fondato sul profitto e sullo sfruttamento intensivo delle risorse energetiche, ambientali in senso lato, alimentari. Si può parlare di imposizione perché chi non accetta il Sistema dominante rimane escluso dal circuito e muore. Generalmente si sottolineano gli aspetti economici, politici, etici della globalizzazione e si sottovalutano quelli relativi all'impatto ambientale e sanitario che sono potenzialmente catastrofici. Abbiamo già visto che in questo senso globalizzazione significa diffusione rapida e potenzialmente planetaria (pandemica) di virus e di altri patogeni, ma anche di organismi geneticamente modificati che inesorabilmente e sempre più rapidamente trasformano l’intero ecosistema e rischiano di interferire pesantemente con lo stesso processo di evoluzione delle specie. Ma esiste un altro aspetto della globalizzazione più “fisiologico” e misconosciuto: quello della “bioinvasione globale". La globalizzazione dei commerci e dei traffici implica infatti il trasporto quotidiano di migliaia di specie di insetti, pesci, mammiferi e microrganismi attraverso i continenti, senza nessun rispetto per un equilibrio di un ecosistema formatosi in miliardi di anni e, in particolare, per quelle barriere naturali costituite da montagne, fiumi, correnti marine che hanno permesso il graduale formarsi di ecosistemi che venendo a contatto tra loro con lenta progressività hanno formato quello che chiamiamo biosfera, un insieme di migliaia di specie in fragile, miracoloso equilibrio. Nel giro di pochi decenni abbiamo travolto queste barriere. Basti pensare alle acque di zavorra delle navi scaricate nei porti di tutto il mondo che portano con sé migliaia di specie ittiche diverse e alloctone, che invadono territori nuovi travolgendo ogni equilibrio e mettendo a repentaglio la stessa biodiversità. Gli Ogm (e tra questi i virus ricombinanti prodotti in laboratorio) sono dunque la punta dell'iceberg, ma rappresentano l'aspetto più pericoloso del gioco: perché per produrli il demiurgo-biotecnologo va nel cuore delle cellule e lo modifica, forzando le stesse barriere genetiche specie-specifiche, accelerando in modo esponenziale il processo appena descritto.
Le Life Science Industries, la Big Pharma e le grandi corporations in genere hanno investito miliardi di dollari nel biotech, nella convinzione che gli scienziati abbiano ormai le conoscenze, gli strumenti e i mezzi necessari a trasformare la biosfera e la società mondiale a propria immagine e somiglianza. Il programma era ed è quello di mettere le mani sul codice stesso della vita, per correggerne i “difetti” e giungere ad una nuova creazione “perfetta”, cioè adattata alle nostre o meglio alle loro esigenze: un progetto demiurgico o piuttosto luciferino, che ha il suo strumento chiave, dotato di chiare valenze simboliche nel Progetto Genoma. Tutto questo potrebbe essere descritto come un vero e proprio “delirio di onnipotenza”. Ma è importante sottolineare che non si tratta “soltanto” di un problema etico o, se si preferisce, metafisico, ma anche di un enorme flop scientifico. Proprio il Progetto Genoma sta infatti rivelando la vanità di questi sogni. Perché il codice della vita si sta rivelando estremamente più complesso e comunque diverso dal modello che esattamente cinquanta anni fa, il 25 aprile del 1953, misero a punto Watson e Crick, e che ci si ostina a insegnare tale e quale nelle scuole e nelle università di tutto il mondo e ad usare come base teorica dei pericolosi esperimenti degli ingegneri della vita e di troppi apprendisti stregoni.
Il risultato di tutto questo è che, da progetto di bio-dominio globale, il progetto dei biotech-scientists e delle corporations (sempre più strettamente collegati tra loro, visto che sono sempre più numerosi gli uomini di scienza che siedono nei consigli di amministrazione delle Life Science Industries) rischia di trasformarsi in una global-bio-war combattuta, come dicevamo, da un nemico infinitamente più sfuggente, elusivo, pervasivo di quello contro il quale G.W. Bush e i falchi del Pentagono hanno deciso di muovere le loro pesanti armate: un esercito di organismi geneticamente modificati che, messo punto in migliaia di laboratori, distribuito in ospedali, farmacie, supermercati e mercati dei sei continenti sta colonizzando il pianeta. Bioterroristi e Masters of (Bio)Wars sono certamente ancora in grado di giocare un ruolo importante nel Grand (Bio)-Guignol che rischia di mettere fine alla storia. Ma potrebbero anche rivelarsi superflui.
Post Scriptum
Per evitare che simili, apocalittici scenari lascino nel lettore l’impressione di un’analisi troppo fantascientifica, è forse il caso di tornare alla cronaca, nerissima di questi ultimi giorni. Al misterioso “suicidio” di David Kelly: uno tra i massimi esperti mondiali in materia di bioterrorismo; consulente anziano dell’Unscom dal 1994 al 1999; testimone chiave di uno dei più importanti scandali spionistici dei nostri giorni; notoriamente critico nei confronti del Governo e dei Servizi di Sua Maestà in relazione al tema controverso delle armi di sterminio irakene. Ciò che più colpisce di fronte a questo ennesimo mistero è il silenzio dei media riguardo al dato più incontrovertibile e inquietante: Kelly è solo l’ultimo di una lunga serie di esperti in bio-wars morti nei quasi 2 anni che ci separano dall’11 settembre e dai giorni dell’antrace. Il primo della lista è un biologo cellulare americano ucciso il 12 novembre 2001 da quattro uomini, a colpi di mazza da baseball. Il secondo un immunologo -forse il più noto della lista, perché la sua equipe aveva annunciato, pochi giorni prima dello scoppio del caso antrace, la scoperta di un gene che rende i topi resistenti al bacillo- scomparso appena 4 giorni dopo e ritrovato cadavere in circostanze misteriose (20 12 01). Il terzo (21 11 01) un microbiologo russo, già coinvolto per Biopreparat in esperimenti su antrace, peste bubbonica, tularemia, vaiolo. Il quarto (10 12 01) un biologo americano accoltellato in Virginia da un gruppo di satanisti. Il quinto (14 12 01) un biologo australiano. E così via per un totale di una quindicina (c’è chi ne conta 12, chi addirittura 18) di esperti in guerre biologiche misteriosamente scomparsi in questo breve lasso di tempo.
Si tratta di un mistero ancora poco indagato e compreso. E’ indubbio che la prima e più semplice ipotesi che viene formulata in simili casi è che questi signori sapessero o avessero capito troppo e non fossero sufficientemente controllabili da parte dei loro governi.
Ma questo significa che tornano a galla alcune tra le ipotesi più inquietanti: quella milleriana di una “international microbial race” alla ricerca dell’agente patogeno più micidiale e specifico (geneticamente selezionato e dotato di antidoto); quella delle nuove pandemie virali e della SARS in particolare come esperimenti propedeutici a una I Guerra Biologica mondiale…
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giovedì 16 aprile 2020
VIRUS E ARMI BIOLOGICHE
di Alessandro Pascolini
Padova. La presente pandemia da SARS-CoV-2, con la vastità del contagio, il grave peso di vittime a livello mondiale e l’estremo impatto socio-economico, dovrebbe convincere l’opinione pubblica e i governi a recepire l’allarme degli esperti sulla minaccia alla stabilità strategica e alla sicurezza comune posta dallo sviluppo tecnologico dell’ingegneria genetica e in particolare dalla potente nuova tecnica CRISPR-Cas9.
CRISP è l’acronimo di “clusters of regularly interspaced short palindromic repeats” e individua speciali regioni del DNA caratterizzate dalla presenza di ripetute sequenze di nucleotidi intervallate da frammenti di DNA “spaziatori”. Nel caso dei batteri, gli spaziatori sono porzioni dei virus che hanno in precedenza attaccato l’organismo e servono come un banco di memorie, che permettono ai batteri stessi di riconoscere i virus e combatterne futuri attacchi. La proteina Cas9 è un enzima che agisce come un paio di forbici molecolari, in grado di tagliare filamenti di DNA. I batteri utilizzano l’RNA derivato dal CRISPR e varie proteine Cas, incluso la Cas9, per contrastare gli attacchi di virus e altri corpi estranei, tagliando e distruggendo il DNA dell’invasore.
La tecnologia CRISPR-Cas9, appunto adattata dai meccanismi naturali di difesa di batteri e archei, è uno strumento semplice ma potente per la manipolazione dei genomi, alterando e modificando le sequenze di DNA con funzione genica. Questa tecnica è stata applicata per la prima volta a cellule umane nel 2013, e ha già cambiato radicalmente la ricerca biologica. Funziona praticamente in tutte le specie in cui è stata provata ed è attualmente in fase di sperimentazione clinica.
Le sue numerose potenziali applicazioni includono la correzione di difetti genetici, il trattamento e la prevenzione della diffusione di malattie e il miglioramento delle colture. Tuttavia, le sue potenzialità, oltre a sollevare serie preoccupazioni etiche, in particolare se utilizzate per manipolazioni dei genoma che possono essere ereditate dalle generazioni future (manipolazione germinale), possono avere un gravissimo impatto di ordine militare e rischi di terrorismo biologico.
Ingegneria genetica e armi biologiche
Esistono migliaia di specie di micro-organismi potenzialmente patogeni, ma solo un numero estremamente piccolo è stato sviluppato per applicazioni militari e praticamente le uniche armi preparate per un effettivo impiego hanno finora impiegato il solo antrace, un batterio in grado di generare il carbonchio.
Le peculiari caratteristiche degli agenti biologici comportano che un bio-patogeno ideale per un impiego militare dovrebbe essere in grado di: generare in modo consistente un preciso effetto: morte o malattia; essere altamente letale o morboso, produrre l’effetto con una bassa concentrazione; essere altamente contagioso; avere un periodo di incubazione preciso e breve; superare l’immunità della popolazione attaccata; rendere difficile la profilassi a chi viene attaccato; rendere difficile l’identificazione; permettere la protezione di chi lo impiega; ammettere una produzione economica in grande scala; rimanere stabile nelle fasi di produzione, immagazzinamento e trasporto sugli obiettivi; garantire una disseminazione efficace; sopravvivere e rimanere stabile nella disseminazione; avere una persistenza limitata, in modo che la zona infetta possa venir occupata rapidamente.
Naturalmente tali condizioni sono spesso incompatibili fra di loro e pertanto si impongono compromessi fra capacità patogena, tempo di incubazione, capacità inibitoria, capacità letale, velocità di trasmissione, resistenza a trattamenti e vaccinazioni, sopravvivenza dopo il rilascio e controllabilità degli effetti. L’ottimizzazione della scelta dipende dal tipo di operazioni che si intendono condurre, strategiche, di sabotaggio ovvero di impiego tattico, aperte o clandestine. In pratica le armi biologiche pongono tali sfide tecniche e operative che hanno portato a porre in dubbio il loro effettivo valore militare e strategico, per cui sono state via via radiate dagli armamenti di quasi ogni stato.
La biologia sintetica, nata e sviluppata in ambito civile, nella sua natura duale ammette applicazioni militari che possono portare a superare le limitazioni per scopi bellici di molti agenti biologici naturali, modificandoli opportunamente, nonché a creare ex-novo nuove armi estremamente efficaci.
Un esempio dei potenziali rischi della biologia sintetica viene dalla creazione nel 2002 di un virus artificiale della poliomielite da parte di un gruppo di biologi americani a partire dalla sequenza genetica dell’agente; ottenuti piccoli tratti di DNA, li ricombinarono per ricostruire il genoma completo del virus; infine dal DNA sintetizzato venne creato un virus vitale con l’aggiunta di un opportuno “cocktail” di sostanze chimiche. Il virus della poliomielite non è un’efficace arma biologica e il suo genoma è relativamente semplice, ma l’esperimento dimostra le tremende potenzialità dell’ingegneria genetica.
Accanto alla creazione artificiale di virus, una tecnica potenzialmente più pericolosa è la generazione di virus fortemente patogeni da virus innocui, come è stato fatto nel 2005 ricreando il virus estinto della spagnola del 1918 corredando un virus influenzale relativamente non virulento con la sequenza completa degli otto geni virali del ceppo del 1918. Nel 2017 il virologo David Evans ha annunciato la sintesi del virus del vaiolo equino, simile a quello del vaiolo umano, dichiarato estinto nel 1980.
Un altro preoccupante sviluppo è anche l’uso di tecniche di ricombinazione per inserire in micro-organismi geni per la produzione in massa di tossine di origine non microbiotica, finora sintetizzabili artificialmente solo in quantità troppo piccole per un uso militare.
Edwin Kilbourne nel 1985 avvertì del pericolo estremo della generazione di un virus da incubo, il “maximally malignant (mutant) virus” o MMMV, con qualità tali da garantirgli la stabilità ambientale del poliovirus, l’alto tasso di mutazione del virus dell’influenza, l’illimitata gamma di ospiti del virus della rabbia e il lungo periodo di latenza del virus dell’herpes; inoltre l’MMMV sarebbe trasmesso attraverso l’aria e replicato nel tratto respiratorio inferiore, come l’influenza, e inserirebbe i propri geni direttamente nel nucleo dell’ospite, come l’HIV.
Per fortuna un MMMV non esiste, ma le nuove tecnologie genetiche possono appunto mirare alla costruzione a costo limitato di agenti biologici aggressivi in grado di ottimizzare le qualità militari e di permetterne sicure forme di immagazzinamento ed efficaci mezzi operativi di dispersione. Ciò creerebbe un rilancio delle armi biologiche, cui praticamente tutti gli stati hanno rinunciato, per i limiti prima considerati. La reintroduzione di tali armi creerebbe un grave attacco alla stabilità del confronto militare presente, e il solo il sospetto che un paese intenda farlo può indurre una corsa agli armamenti biologici a scopo deterrente.
Il rischio è gravissimo e la comunità internazionale dovrebbe necessariamente prevenirlo con strumenti efficaci. I fattori combinati di una tecnologia a costo inferiore, più facilmente accessibile e maggiormente efficace potrebbero non essere sufficienti per influenzare le potenze maggiori, ma potrebbero incentivare stati piccoli, in particolari situazioni di sicurezza, a riconsiderare l’utilità marginale di investire in armi biologiche. Di conseguenza, qualsiasi strategia per affrontare il rischio di armi biologiche geneticamente modificate deve tenere conto di un’ampia gamma di stati potenzialmente interessati, non solo le maggiori potenze.
Il regime di prevenzione delle armi biologiche e suoi problemi |
Esiste un insieme articolato di vincoli sociali e formali agli armamenti chimici e biologici, composto di un diffuso rifiuto interculturale di base, una famiglia di norme, regole e procedure, sia nazionali che plurinazionali e internazionali, il tutto a costituire un “regime” preventivo, che appare oggi inadeguato ad affrontare le sfide poste dalla biologia sintetica.
I capisaldi legali internazionali consistono del Protocollo di Ginevra del 1925, che proibisce l’impiego in guerra di “metodi di guerra batteriologica”, ed è considerato far parte delle norme consuetudinarie e quindi universale, e la “Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, la produzione, e lo stoccaggio di armi batteriologiche (biologiche) e tossine e sulla loro distruzione” (BTWC), in vigore dal 26 marzo 1975, con 183 stati parte; mancano in particolare Egitto, Israele e Siria, assieme a significativi paesi africani.
La BTWC è uno strumento complesso che opera a più livelli, mettendo insieme problematiche scientifiche e sociali, salute e sicurezza, prevedendo azioni sia nazionali che internazionali, coinvolgendo competenze non solo diplomatiche, militari e di controllo degli armamenti, ma anche sanitarie, in agricoltura, veterinaria, educazione, diritto, industria, commercio, oltre naturalmente in vari campi scientifici e tecnologici di base.
L’articolo I obbliga le parti a non mettere a punto, fabbricare, tenere in deposito o acquistare né agenti microbiologici e tossine, tranne che a fini profilattici, di protezione o pacifici, né armi e vettori specifici per tali agenti; entro nove mesi si devono distruggere o convertire a usi pacifici tutti gli agenti e gli impianti esistenti, garantendo la sicurezza della popolazione e dell’ambiente (art. II). L’articolo III previene la proliferazione, con l’impegno delle parti a non trasferire agenti, tossine, o armi biologiche, né ad assistere, incoraggiare o indurre altri paesi o organizzazioni ad acquisire capacità militari biologiche. Gli stati si impegnano ad aggiornare la propria legislazione interna nella prospettiva del rispetto della convenzione (art. IV) e a cooperare per il suo rispetto (art. V); sospetti di violazioni vanno trasmessi al Consiglio di sicurezza dell’ONU (art. VI), che può individuare paesi esposti a pericoli a seguito di violazioni, nel qual caso ogni altro stato deve fornire assistenza (art. VII). All’articolo X la Convenzione prevede piena collaborazione fra le parti e scambio di informazioni e materiali per usi pacifici di agenti biologici e per l’applicazione delle scoperte scientifiche alla prevenzione delle malattie. Ogni 5 anni vanno indette conferenze di riesame per verificare lo stato di applicazione della convenzione e considerare eventuali aggiornamenti a seguito di sviluppi scientifici e tecnologici (art. XII).
La Convenzione, dunque, non vieta lo sviluppo di agenti biologici patologici ma solo proibisce la loro finalità a scopi militari, introducendo il criterio di “intenzione d’uso”, una novità assoluta nel contesto degli accordi internazionali e di controllo degli armamenti. Pertanto non viene definita una lista di agenti biologici e tossine proibiti, ma sono invece definiti gli scopi permessi vietando di immagazzinare quantità di agenti maggiore di quella consistente con le applicazioni civili. Questa impostazione è resa necessaria dall’ambivalenza militare-civile degli sviluppi della biologia e permette inoltre di comprendere a priori nuovi, e al momento imprevedibili, sistemi, agenti e tecnologie futuri; ciò si è rivelato di estrema importanza visti gli enormi sviluppi della biologia negli anni successivi.
Un aspetto critico della Convenzione, come pure del Protocollo di Ginevra, è la mancanza di meccanismi di verifica del rispetto delle varie clausole: sia della proibizione di intraprendere iniziative non permesse e di fornire a terzi materiali sensibili, sia delle imposizioni positive per misure efficaci per ridurre i rischi di attività proibite e per lo sviluppo collaborativo delle biotecnologie pacifiche.
Le uniche azioni previste dalla BTWC a fronte di sospetti di infrazione si riducono a consultazioni fra le parti ed eventualmente al ricorso al Consiglio di sicurezza. Anche per questa debolezza della BTWC, si sono verificate gravi violazioni protratte nel tempo, senza che i paesi violatori abbiano dovuto sopportare alcuna conseguenza: gli enormi programmi offensivi dell’URSS dal 1972 al 1992, le significative produzioni dell’Iraq dal 1974 al 1991 e del Sud Africa dal 1980 al 1993 hanno messo in dubbio la stessa validità della Convenzione. Un ulteriore effetto negativo della mancanza di forme istituzionali di verifica e controllo è che ciò dà adito a sospetti e diffidenza reciproci.
In reazione a questi limiti sono stati sviluppati strumenti esterni alla Convenzione, quali il potere assegnato al Segretario generale dell’ONU (novembre 1987) di investigare su denunce d’uso di questi tipi di armi e, almeno per le tossine, nella Convenzione per il bando delle armi chimiche del 1993, ma anche iniziative unilaterali da parte di gruppi di paesi esportatori. Il Gruppo Australia nel 1990 decise di estendere il controllo delle esportazioni di materiali e di licenze di tecnologie per la produzione di armi chimiche anche a quelle biologiche; attualmente vi sono 4 liste di controllo riguardanti le armi biologiche: attrezzature biologiche ambivalenti militari-civili, agenti biologici, patogeni vegetali e patogeni animali. Dal 1996 agenti e tecnologie biologiche potenzialmente d’interesse militare sono incluse anche nelle liste di controllo alle esportazioni dell’Accordo Wassenaar. Va osservato che queste limitazioni unilaterali agli scambi internazionali sono viste da molti paesi importatori in contrasto all’articolo X della BTWC, e danno luogo ad accesi dibattiti in ogni conferenza di revisione.
L’irrisolto problema dei controlli
La scoperta dei programmi militari russi, iracheni e sudafricani ha portato la Conferenza di revisione del 1994 a creare un gruppo di lavoro (Ad Hoc Group - AHG) con il compito di negoziare un protocollo legalmente vincolante per “rafforzare l’efficacia e migliorare l’adempimento della Convenzione”.
L’AHG ha continuato i suoi lavori per 5 anni, con posizioni contrastanti e incompatibili fra loro, spesso diametralmente opposte su definizioni, elenchi di agenti, portata ed estensione delle dichiarazioni, visite, indagini, controlli sulle esportazioni, misure per attuare l’articolo X e poteri degli organi decisionali, conproposte che di fatto svuotavano di significato gli articoli I e III, creando in pratica “santuari” inaccessibili al controllo e facilitazioni per la proliferazione delle armi. Di fronte alle divergenti posizioni, il 30 marzo 2001, dopo 23 sessioni di lavoro, il presidente dell’AHG, l’ambasciatore ungherese Tibor Tóth, tentò la procedura, rivelatesi utile in altri negoziati, di presentare un “testo del presidente” su una bozza di compromesso, che prevedeva anche la creazione di un’Organization for the Prohibition of Biological Weapons (OPBW) analoga all’OPCWesistente per le armi chimiche.
Il documento estremamente complesso (273 pagine), e in parte contradditorio, trovò nella 24 sessione la decisa opposizione da parte di molti paesi, che chiesero di riprendere i negoziati per raggiungere un consenso universale su tutte le questioni. In questa situazione, il 25 luglio 2001 il nuovo presidente americano George W. Bush respinse il testo di Tóth, dichiarò futile e impraticabile la ricerca di una forma efficace di controllo delle attività militari che non pregiudichi lo sviluppo di quelle civili e ritirò la delegazione USA dall’AHG, decretandone la sospensione dei lavori.
La decisione di Bush rispecchiava la sua globale diffidenza dei vincoli internazionali, ma i punti specifici della critica riflettono la complessità intrinseca del controllo degli armamenti biologici. Data l’ambivalenza della ricerca, l’esiguità della quantità di agenti biologici sufficienti per un’arma, producibili in laboratori di minime dimensioni, e la possibilità di convertire a scopo militare in pochi giorni impianti per la produzione di vaccini e prodotti farmaceutici in genere, controlli adeguati dovrebbero essere estremamente intrusivi e coprire un numero enorme, e in continuo veloce aumento, di laboratori, centri di ricerca, industrie in tutto il mondo, un problema di dimensione incomparabile con le attività di salvaguardia della IAEA per il trattato di non proliferazione o della OPCW per la convenzione sulle armi chimiche.
Anche se alcuni stati continuano a insistere sull’opportunità di riprendere i lavori dell’AHG sulla base del testo del 2001, causando anche il fallimento della Conferenza di revisione del 2016, un’OPBW appare troppo costosa e comunque inadeguata; nella sesta conferenza di riesame (2006) si è creata una piccola unità di sostegno all’applicazione della convenzione (Implementation Support Unit - ISU), che tuttora è composta da sole tre persone e con difficoltà ottiene i minimi finanziamenti necessari alla sua operatività.
Per rafforzare e garantire il rispetto della convenzione sono stati adottati provvedimenti volti a favorire la trasparenza, attraverso i quali costruire la fiducia reciproca (confidence-building measuresCBM), basati sullo scambio volontario di dati relativi ai programmi e ai centri e laboratori di ricerca e di informazioni su eventuali epidemie eccezionali, sulla presentazione della legislazione e regolamentazione nazionali specifiche, su dichiarazioni riguardanti le attività pregresse, attuali e quelle programmate e sulla promozione di scambi e visite di ricercatori nei campi della microbiologia. La portata di queste misure rimane comunque limitata, visto il carattere volontario e non sistematico, e il loro insufficiente rispetto da parte della maggioranza degli stati.
Grafica di Giuseppe Denti |
Di fatto dal 2001 l’attenzione della comunità internazionale per le armi biologiche è andata scemando a fronte delle più urgenti problematiche degli armamenti nucleari (con i casi della Corea del Nord e dell’Iran, la crisi dei trattati e i nuovi programmi di ammodernamento) e chimici, con la violazione del tabù del loro impiego nel corso delle guerre in Siria e Iraq.
La molteplicità degli incontri svolti da allora nell’ambito della BTWC (Conferenze di revisione, incontri annuali degli stati parte e sessioni di esperti), anche se ha consentito la continuità dei rapporti internazionali sulle tematiche bio-militari, non ha portato a risultati significativi, ma ha registrato continue contrapposizioni sull’importanza relativa di argomenti come scienza e tecnologia, CBM, attuazione nazionale, controlli sulle esportazioni, cooperazione e assistenza e conformità alle norme previste. Ciò ha impedito qualsiasi progresso significativo nel concordare un’azione efficace negli stessi programmi di lavoro.
La pandemia da H1N1 che fra il gennaio 1918 e il dicembre 1920 ha colpito circa 500 milioni di persone e causò decine di milioni di morti convinse la Polonia a far aggiungere al protocollo di Parigi sulle armi chimiche del 1925 anche la proibizione dell’impiego in guerra di “metodi di guerra batteriologica”.
Possiamo sperare che la presente pandemia induca i governi mondiali, che dovrebbero preparasi alla nona conferenza di revisione dells BTWC, prevista per il 2021, a un deciso impegno per creare un efficace regime di prevenzione di ogni possibile sviluppo di armi biologiche? Il panorama attuale delle personalità politiche mondiali non appare particolarmente incoraggiante, per cui sono assolutamente necessari seri e propositivi lavori di ricerca da parte della comunità scientifica per nuove efficaci misure in grado di prevenire anche i pericoli insiti nelle tecnologie genetiche, ma soprattutto che l’opinione pubblica, sottoposta alla presente “livella” universale, riaccenda l’orrore e il totale rifiuto culturale per le armi biologiche e li imponga ai suoi governanti.
[Lunedì dell’Angelo 2020]
* Università di Padova