COME FAR PESARE LA PACE E IL DISARMO NELLA CAMPAGNA ELETTORALE?
QUI materiale per la discussione aperta dai Disarmisti esigenti in vista delle politiche che si terranno il 25 settembre 2022. Primo incontro online il 28 luglio 2022
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Come parlare di pace in campagna elettorale?
La convocazione dell'incontro online del 28 luglio
Proprio quello che il popolo italiano, con tendenza pacifista per niente scontata, contrario - secondo tutti i sondaggi svolti dagli stessi media embedded - all'invio delle armi all'esercito ucraino (senza che questo significhi simpatizzare per Putin e per il suo anacronistico sogno imperiale), non vorrebbe; così come non capisce - stiamo sempre parlando del nostro popolo - il senso di sanzioni che fanno più male alla economia europea che non alla Russia contro cui sono ufficialmente indirizzate.
La campagna elettorale è già iniziata ed è il caso che, anche dietro nostra spinta, forze politiche e candidati si esprimano chiaramente su cosa farebbero su nucleare, spese militari e guerra non in termini programmatici astratti ma se si trovassero al governo.
Noi società civile ecopacifista dovremmo incalzarli sull'adesione alle nostre campagne più battute: il percorso della proibizione delle armi nucleari, l'uscita dalla condivisione nucleare NATO (rifiuto di B61-12 e F35), la riduzione delle spese militari, cominciando da quelle offensive, quindi incostituzionali, convertendole in ambiente, sanità e cultura, l'appoggio a obiettori e disertori sia russi che ucraini quale contributo a fermare l'escalation bellica che può - non è una ipotesi fantastica - degenerare in scontro nucleare.
Avremmo da porci come intermediari degli elettori che desiderano giustamente garanzie sul fatto che la propria espressione di voto non venga malamente strumentalizzata, come il più delle volte è finora successo.
In un appello che dobbiamo preparare - noi Disarmisti esigenti & partners avanzeremo in questo senso una bozza- porremo, da ecopacifisti attivi, richieste precise ai candidati e segnaleremo e valorizzeremo le risposte con le assunzioni di impegno più stringenti e credibili.
E proprio perché dolorosamente scottati da ripetute deleghe a forze radicali nelle promesse di cambiamento, ma opportuniste e burocraticamente minimaliste alla prova dei fatti, auspichiamo, secondo quanto emerso da tanti nostri incontri online, che gli animatori sociali - le cosiddette avanguardie della società civile - la facciano finita con le facili dismissioni e cessioni di responsabilità.
Forse è il caso che comprendiamo, noi attivisti sociali dotati di competenze temprate nel fuoco delle lotte, di dover convergere per promuovere un nuovo soggetto dell'alternativa all'élite che proponga l'opposizione alla guerra prospettando la pace come condizione di vita e di giustizia nonché modello complessivo di sviluppo.
La pace come centro organizzatore delle convergenze e come priorità, non come annesso e dettaglio residuale dei programmi di intervento sociale, in molti contesti addirittura omessa.
La pace globale con la Natura, obiettivo della conversione ecologica, quale condizione per la giustizia e la libertà delle società umane.
E' possibile combinare qualcosa in questo senso nei pochi giorni che ci distanziano dal voto per la nuova legislatura?
Ne discutiamo già la prossima settimana, giovedì 28 luglio, dalle ore 18:00 alle ore 20:00. Con la bozza di documento-appello già da noi predisposta. E che avrà come base testuale e di orientamento politico-culturale un documento contro la deterrenza nucleare già apparso come articolo sul Manifesto quotidiano (titolo: "Un genocidio programmato da disinnescare") e che è stato ampliato come petizione online sottoscrivibile al link: no deterrenza nucleare genocidio da disinnescare - Petizioni.com
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Come parlare di pace in campagna elettorale?
La scaletta preparatoria dell'incontro del 28 luglio
Possiamo svolgere il solito compitino sulle istanze pacifiste, ripetendo gli esiti del rito che celebriamo ormai da decenni: si propongono, da parte nostra, dei punti e si ricevono adesioni e promesse dai candidati e dalle forze politiche (in campagna elettorale non si negano a nessuno!) di cui poi noi stessi non chiediamo conto e ragione.
Un esempio neanche tanto lontano? quasi la metà dei deputati in vista della XVII Legislatura che poi non hanno portato avanti l'ICAN Pledge.
Nella XVIII si erano ridotti ad una 60ina, ed abbiamo avuto tre governi guerrafondai in diversa misura, ma allo stesso titolo.
Certo con Draghi abbiamo registrato un salto di qualità, ma il Conte 1 (M5S+Lega) e il Conte 2 (M5S+PD) erano forse orientati sull'articolo 11?
Come allora essere più stringenti quando presentiamo le nostre richieste?
Non dobbiamo semplicemente chiedere l'adesione ai singoli punti (o "istanze"), ma proporli come DISCRIMINANTI per entrare in una compagine di governo.
"Noi candidati e forza poltica ci impegnamo, su vostra sollecitazione, a portarli avanti, altrimenti non si parte di un governo, si fa OPPOSIZIONE, consapevoli che anche da questa collocazione, con l'appoggio popolare, possono essere raggiunti dei risultati superiori all'occupare scranni istituzionali in modo subalterno".
Questo vale in particolare per quei punti in cui c'è un consenso popolare maggioritario certtificato dagli stessi sondaggi dell'avversario del complesso militare-finanziario-energetico.
In questo modo si fa una operazione politica, non semplicemente si attiva una espressione etico-culturale di sè stessi.
1- no alle armi 2- no alle sanzioni, in particolare energetiche - 3 - denuclearizzazione militare e civile: ecco tre questioni in cui gli stessi sondaggi dei media mainstream dicono che abbiamo o che avremmo la maggioranza, se gli italiani fossero informati!
La nostra priorità è il disarmo nucleare perché abbiamo consapevolezza del livello di gravità di rischio cui ci espone la "deterrenza" che è genocidio programmato (si veda dichiarazione pubblicata su il Manifesto del 6 luglio sottoscrivibile al link: https://www.petizioni.com/no_deterrenza_genocidio_nucleare) contro la quale si contrappone la "speranza" del TPNW, così come ricordato dal documento della Convergenza che commemora l'anniversario di Hiroshima [https://www.pressenza.com/it/2022/06/costruiamo-convergenza-report-
dellincontro-alleirenefest]
Quale è, ad avviso dei Disarmisti esigenti, l'obiettivo da perseguire?
Esprimere l'ideale della pace come modello di sviluppo complessivo (disarmo+ecologia+giustizia sociale) ed intanto rappresentare alcune tendenze pacifiste e antinucleari del nostro popolo.
Perché questo ideale, per diventare realtà concreta, può marciare solo su gambe popolari, per andare oltre la testimonianza e diventare, appunto, prospettiva politica.
Senza una visione complessa, basata sull'assunto che oggi il primo compito per tutti è la PACE CON LA NATURA, stante le retroazioni in atto nerll'ecosistema globale sconvolto, non si ha la base per mettere insieme i due obiettivi "vitali" con maggiore appeal popolare:
- il rifiuto di farsi coinvolgere nell'escalation bellica sul piano militare
- il rifiuto di farsi coinvolgere nella guerra economica (da non confondere con il rifiuto dell'economia di guerra, cioé i razionamenti con cui pagare gli aiuti militari all'Ucraina).
Il massimo banditore oggi di questa visione complessa, che chiama ECOLOGIA INTEGRALE, è Papa Francesco...
Noi la chiamiamo PACE come modello di ecosviluppo, che attacca il potere e gli interessi della élite dell'1%, liberando il mercato dal dominio oligopolistico e sottoponendolo a controllo sociale.
Dobbiamo rifiutare la centralità della collocazione nello scontro NATO/Russia. La centralità sta nella cessazione della guerra che stiamo conducendo contro la Natura.
Si può proclamare la neutralità rispetto a questo scontro geopolitico, pur condividendone la centralità nell'approccio con la realtà politica e sociale.
E a questo punto per i bellicisti il gioco in gran parte è fatto.
E' infatti debole accettare le premesse per rifiutare solo alcune conseguenze.
Noi invece rifiutiamo proprio la premessa: lo scontro NATO-Russia non è centrale, centrale è lo scontro umanità-Natura che il malsviluppo della crescita senza limiti orientata al profitto e alla potenza ha imposto.
Promuovere singole istanze pacifiste non è la stessa cosa che proporre un soggetto politico organicamente ecopacifista: un movimento politico della pace.
Ovviamente per alcuni il problema non si pone perchè la risposta istituzionale è già stata sostanzialmente data nell'offerta politica corrente.
La risposta istituzionale per l'offerta politica ci sarebbe già (quasi), tra M5S, "Unione popolare", o altro (i Verdi nel "campo aprerto" proposto dal PD).
Il ceto politico sta sostituendo Tsipras con Melenchon.
Cosa manca perchè questa operazione risulti credibile?
Una coerenza sia di comportamenti passati, molto più netta nel caso dei 5S, sia di approccio, che esprima l'omogeneità mezzi-fini, contenuti e forme.
Perché il punto è mettere in campo il concetto di COMPETENZA SOCIALE, in cui la saggezza, raggiunta con il dialogo collettivo, sostituisce la sapienza, fondata sullo studio individuale.
Siamo in ritardo perché bisogna giocare non soltanto per partecipare, ma per ottenere almeno il diritto di tribuna, correndo con regole che sono quelle che sono: non le abbiamo stabilite noi.
Quindi bisogna fare il 5% e per questo risultato non c'è alcuna speranza, nemmeno se il Papa dicesse: "Io vi voto perché apprezzo il vostro lavoro per la conversione ecologica".
Le regole sono quelle stabilite dal cd Rosatellum con il ritocco silenzioso in atto perché la composizione del Parlamento è stata ridotta di oltre un terzo per via referendaria: 200 membri del Senato e 400 della Camera. Con premio di maggioranza e listini, indipendentemente dall’esito prodotto nelle urne, i cittadini saranno privati di fatto del diritto di scegliere una
parte cospicua dei propri rappresentanti. E' anche possibile, stando a tutti i sondaggi, una vittoria del centro destra, con Fratelli d'Italia primo partito, in misura tale da poter modificare la Costituzione.
Occorrerebbe una nuova legge elettorale, possibilmente proporzionale, che sopprimesse i nominati, restituendo al cittadino il diritto di scegliere la parte politica, ma anche la persona, con la speranza che questa restituzione di poteri, attualmente menomati, contribuisca a motivare a recarsi alle urne.
Il ritorno ad una legge proporzionale con indicazione di preferenza (meglio se doppia, per assicurare l’equilibrio di genere), con una soglia minima, avrebbe il doppio vantaggio di generalizzare il potere dell’elettorato nella scelta dei propri rappresentanti – indispensabile soprattutto con una costituzione che, all’art. 67, esclude il vincolo di mandato, mentre resta inattuata la struttura democratica interna ai partiti, prevista dall’art. 49 – e di trovare i consensi necessari per essere approvata nei pochi mesi restanti di attività parlamentare.
Una riflessione più di fondo possiamo e dobbiamo avviarla, per trovare convergenze di intervento, sulle forme della democrazia: complementarizzare e armonizzare quella rappresentativa, quella diretta referendaria, quella partecipativa e quella deliberativa delle assemblee dei cittadini.
Anche in campagna elettorale non dobbiamo dismettere le lotte e praticare la costruzione della convergenza.
Ci sono tre emergenze da mettere insieme: quella geopolitica, quella ecologica, quella sociale.
Quale è l'obiettivo che può unificarle?
Una proposta è premere sul bilancio dello stato per la conversione delle spese dannose e mortifere (militari, SAD, grandi opere nocive) in investimenti per ambiente, sanità e cultura: il welfare "verde" collegato a piani economici di PIENA OCCUPAZIONE ambientalmente e socialmente utile.
Il "capitalismo verde", ci ricorda sempre Giuseppe Farinella, de "IL SOLE DI PARIGI", è una forza storica con la quale fare i conti e che in significativa parte si contrappone al capitalismo dei complessi militari industriali, sia liberali che autocratici; la nostra "pace con la natura", la conversione ecologica e disarmista, è anche una economia in cui il controllo sociale, ispirato ai principi di cura e solidarietà universale, prevale sulle forze cieche dei potentati che perseguono il profitto.
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Crisi climatica, ci sarà ancora un domani?
Fenomeni in gran parte irreversibili
Tutti i fenomeni attraverso cui è destinata a manifestarsi questa fine del mondo sono già in gran parte presenti (...) e sostanzialmente irreversibili: Così la conversione ecologica, anche volendola fare, sarà sempre più difficile. Non parliamo della conversione dalla combustione all’elettrico del parco veicoli (un miliardo e 300milioni di auto), oggi al centro dell’attenzione. Che senso ha?
Problemi ignorati
(...)
Il contenimento della crisi climatica e ambientale non dipende solo da noi, né come individui, né a livello territoriale o nazionale; persino l’UE (che vale il 10 per cento delle emissioni globali) conta poco. Tuttavia, ciascuno di noi, ciascun territorio, ciascuna nazione e ciascun continente dovrebbe sforzarsi di fare il possibile per contribuire a una conversione ecologica complessiva. C’è molto da fare per tutti. Ma, soprattutto, c’è da trovare la strada per farlo, che non è per nulla chiara come lo sono invece gli obiettivi da perseguire e che è diversa da Paese a Paese come da individuo a individuo e da impresa a impresa.
Adattamento: salvare il salvabile e lasciare indietro il superfluo
E’ chiaro che l’obiettivo centrale, quello di Parigi e di Glasgow (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, sigla in inglese Unfccc) di +1,5°C sul periodo preindustriale non sarà raggiunto. Quindi, occorre prepararsi al meno peggio. E il meno peggio si chiama adattamento. Salvare, fin che si è in tempo, quello che si ritiene salvabile e lasciare indietro quello di cui c’è meno bisogno. Cominciando con l’agricoltura e l’alimentazione che devono tornare a essere biologiche, multicolturali, di prossimità, senza più allevamenti intensivi. Poi con la cura del territorio, rimboschendolo il più possibile. E con la mobilità, abbandonando per sempre l’idea di avere a disposizione “un cavallo meccanico” a testa; la mobilità sostenibile è condivisione e pieno utilizzo di ogni mezzo. E il turismo, oggi la più grande industria del mondo, se ancora possibile, deve tornare a essere villeggiatura di prossimità o avventura senza confort. Anche l’industria dovrà ridimensionarsi e con essa sia l’aggressione alle risorse della Terra per alimentarla che la moltiplicazione dei servizi per trovarle uno sbocco nei nostri consumi. La scuola deve diventare un centro di formazione alla convivenza aperto a tutti e la cura della salute deve spostare il suo asse dalla terapia alla prevenzione.
In una prospettiva del genere, ci sarà posto per tutti su quel che resterà della Terra, sia per abitarla che per garantire a ciascun un ruolo, un’attività, un modo di rendersi utile senza piegarsi al feticcio dell’occupazione, che riguarda sempre e solo una parte della popolazione. Ma chi ha il coraggio di mettersi su questa strada?
da Avvenire, 23 luglio: 5 proposte di Rete italiana pace e disarmo
(...) Sergio Bassoli, coordinatore dell’esecutivo della Rete italiana pace e disarmo. «La guerra – afferma – scatena l’effetto domino in una società globalizzata, interdipendente, invadendo ogni ambito e spazio: crollano i mercati ed il commercio, aumentano i costi delle materie prime, l’inflazione galoppa ed i salari perdono potere d’acquisto, ritornano la fame, le carestie e le pandemie nel mondo». E allora, ribadisce Bassoli, «dire basta alle guerre e alla folle corsa al riarmo è nell’interesse di tutti e di tutte». «La condanna dell’aggressione e la solidarietà con le vittime sono il punto di partenza – ribadiscono i promomotori – ma non bastano». L’obiettivo è «una grande alleanza della società civile europea, che si riconosce in cinque punti».
1 - La condanna dell’aggressione russa all’Ucraina, la difesa della sua indipendenza e sovranità, la piena affermazione dei diritti umani delle minoranze e di tutti i gruppi linguistici in Ucraina;
2- La solidarietà con la popolazione ucraina, i pacifisti russi e con gli obiettori di coscienza di entrambe le parti;
3- Il rilancio del cessate il fuoco per l’avvio di un immediato negoziato in cui sia protagonista l’Onu;
4- La de-escalation militare come leva fondamentale per l’iniziativa diplomatica e politica;
5 -La costruzione di un sistema di sicurezza condivisa in Europa.
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Cinque passi per un’economia di pace - Altreconomia
Cinque passi per un’economia di pace
Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. Al contrario, il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro. Dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere un tempo più pacifico e più sostenibile. Cinque grandi cambiamenti da attuare secondo Francesco Gesualdi
Ci avevano raccontato che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. L’adagio era che permettendo alle imprese di poter collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di poter spostare la produzione dove appariva più conveniente, di poter trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace. Ma le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina e soprattutto la guerra in Ucraina, che assomiglia sempre di più a uno scontro fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici che evidentemente fanno parte integrante di ogni forma di capitalismo. E mentre rimane forte l’impegno di ogni governo ad aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti la propria bandiera, le tensioni si fanno sempre più accese per il controllo delle risorse e il dominio delle tecnologie. La conclusione è che il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro, per cui dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere in un mondo al tempo stesso più pacifico e più sostenibile. Penso che per riuscirci dovremmo introdurre cinque grandi cambiamenti che a mio avviso ogni popolo farebbe bene a valutare ed attuare, anche unilateralmente.
Il primo passo da compiere è la messa al bando delle industrie di armamenti. Il Sipri valuta che nel 2020 le prime 100 imprese mondiali di armi hanno avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio. Finché produrremo armi avremo guerre perché rappresentano l’occasione di consumo di materiale bellico. E come le imprese di imbottigliamento hanno bisogno di chi beve acqua in bottiglia, allo stesso modo le imprese di armi hanno bisogno di guerre. Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i ministeri della Difesa e spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo l’organizzazione Open Secrets, nei soli Stati Uniti negli ultimi 20 anni le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime 10 imprese di armi spendono oltre cinque milioni di euro all’anno e dispongono di 33 lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.
La seconda grande scelta da compiere è l’abbandono del consumismo a favore della sobrietà. Il consumismo è una bestia insaziabile che ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Lo testimonia non solo il colonialismo, ma anche il neocolonialismo che oggi si presenta col volto dello scambio ineguale, del land grabbing, dello strangolamento finanziario. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua. L’unico modo per interrompere le guerre di accaparramento è ripensare il nostro concetto di benessere, riportandolo nel perimetro di ciò che ci serve senza sconfinare nell’inutile e nel superfluo. Un compito non semplice perché si scontra con le nostre pulsioni più profonde, ma con possibilità di successo se torniamo a dare il giusto valore alla sfera affettiva, sociale, spirituale e più in generale agli aspetti relazionali che la logica materialista tende a mettere in ombra.
Il terzo passaggio è la capacità di orientarci totalmente verso le energie rinnovabili perché affidandoci al sole, al vento e alle altre forme di energia naturale, rompiamo la nostra dipendenza dalle risorse altrui. Un’indipendenza che ci rende al tempo stesso meno angosciati, e quindi meno aggressivi, e più propensi alla collaborazione internazionale. Ricordandoci che la transizione energetica sarà tanto più possibile quanto più sapremo orientarci verso la sobrietà perché meno consumiamo, meno energia dobbiamo produrre.
Il quarto intervento è la capacità di potenziare l’economia pubblica, precisando che pubblico non è sinonimo di Stato, ma di comunità. L’economia pubblica è l’economia della comunità che diventa imprenditrice di se stessa per garantire a tutti, in maniera solidaristica e gratuita, tutto ciò che risponde a bisogni irrinunciabili come acqua, alloggio, sanità, istruzione e in generale tutto ciò che definiamo diritto. Beni e servizi determinanti per la dignità umana che non possono essere variabili dipendenti dalla disponibilità di denaro, bensì certezze da garantire a tutti tramite la solidarietà collettiva. Se riuscissimo a liberarci dai condizionamenti ideologici capiremmo che il rafforzamento dell’economia pubblica è non solo elemento di progresso umano e sociale, ma anche di pace, perché l’economia pubblica, a differenza dell’economia di mercato, non ha bisogno di espansione. Poiché non vende, bensì distribuisce, non ha la preoccupazione di procurarsi nuovi clienti. Il suo obiettivo è produrre quanto basta per soddisfare i bisogni dei propri cittadini, dopo di che è ben lieta di fermarsi. Non così per le imprese commerciali in lotta perenne fra loro per la conquista di nuovi mercati, se necessario con l’assistenza dei propri governi che magari non usano armi, ma ricatti e altri strumenti di pressione non meno insidiosi perché capaci di suscitare rancori dagli esiti imprevedibili.
E per finire la capacità di improntare i rapporti internazionali a spirito di cooperazione ed equità. Equità per garantire la giusta remunerazione ai produttori e cooperazione per sostenersi reciprocamente e colmare gli squilibri creati da cinque secoli di economia di rapina. Tutto ciò, però, è possibile solo con un cambio di paradigma culturale. In economia bisogna passare dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione. In ambito sociale bisogna passare dai principi di forza, vittoria, successo a quelli di mitezza, rispetto, sostegno. Perché solo predisponendoci diversamente verso l’altro potremo passare da una cultura della guerra a una cultura della pace.
Francesco Gesualdi (1949), allievo di don Lorenzo Milani a Barbiana, nel 1985 ha fondato a Vecchiano (PI) il Centro nuovo modello di sviluppo (cnms.it), da cui vengono lanciate le prime campagne di sensibilizzazione e informazione per un consumo critico in Italia. Per Altreconomia edizioni ha scritto tra gli altri “L’altra via” (2009) e “Cambiare il sistema” (2014).
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La pace è sviluppo: non solo economico ma anche sociale (avvenire.it)
Idee. La pace è sviluppo: non solo economico ma anche sociale
La guerra in Ucraina ha suscitato sgomento e preoccupazione non solo per la tragedia che ha colpito quel popolo, ma anche per la grave ed irrazionale destabilizzazione internazionale sul piano culturale, politico, economico ed ecologico, nonché della pace. La non improbabile escalation della guerra sul piano non solo europeo, ma anche mondiale, reclama che le armi tacciano al più presto. Il saggio Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace del vescovo di Faenza-Modigliana, Mario Toso, che esce dalle Edizioni Frate Jacopa (pagine 76, euro 12,00; info: 3282288455) sollecita il superamento dei pacifismi declamatori, auspicando il potenziamento della via della nonviolenza attiva e creativa, che costruisce la pace predisponendo alacremente istituzioni di pace, supportate da una nuova società civile mondiale. Dal libro, anticipiamo la prefazione dell’economista Stefano Zamagni.
Saluto con simpatia il breve ma denso saggio di Mons. Mario Toso, vescovo di Faenza e Modigliana. Il tema che affronta è di straordinaria e pur tragica attualità: la guerra in Ucraina che si protrae nel tempo e di cui non si riesce ancora a prevederne la fine. Il taglio espositivo del saggio è quello proprio del pensiero critico- discernente, di un pensiero cioè che non si limita ad analizzare i fenomeni indagati, ma si spinge a comprenderne le radici profonde, a praticare appunto il discernimento. È questo un antidoto efficace contro il pericolo bene descritto da C.S. Lewis con l’espressione chronological snobbery, per significare l’accettazione acritica di ciò che succede semplicemente perché parte del trend intellettuale del presente. Accade così che l’accettazione supina del factum finisce col togliere slancio al faciendum. Il caso qui trattato ne è eloquente conferma. Nel 1975, Johan Galtung – uno dei più tenaci assertori delle ragioni della pace – coniando il termine peacebuilding, introdusse la distinzione tra pace negativa e pace positiva. La prima è null’altro che il conflitto congelato, una situazione in cui tacciono le armi, ma restano i carboni accesi sotto la cenere. La seconda, invece, è la pace negoziata – un’opzione favorita dai 'costruttori di pace', come si legge nel testo evangelico. Monsignor Toso si spende a favore della pace positiva, perché persuaso che mai si potrà eliminare o scongiurare la guerra se non si distrugge il mondo della guerra, cioè quelle «forze negative, guidate da interessi perversi che mirano a fare del mondo un teatro di guerra» (Giovanni Paolo II, Angelus del 1° gennaio 2002). Alla luce di ciò, di particolare rilevanza sono le proposte che l’A. di questo saggio avanza per contrastare «le forze e gli interessi», cioè le strutture di peccato, oggi presenti più che mai sulla scena internazionale. Lo sfondo sul quale la riflessione del vescovo Toso va inserita è quello della icastica affermazione di papa Paolo VI: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace» ( Populorum Progressio, 1967) – una afferma- zione che a distanza di oltre cinquant’anni stenta ancora a essere correttamente compresa. Perché? La ragione è che si continua a confondere lo sviluppo con la crescita economica. Anche piante ed animali crescono, ma solamente l’essere umano è capace di sviluppo. Il quale è l’esito del concorso di tre dimensioni: quella della crescita, certamente, ma pure quella socio- relazionale e quella spirituale. Ebbene, un modello di sviluppo garantisce la pace quando le tre dimensioni avanzano in armonia, senza che la dimensione della crescita fagociti le altre due – come oggi sta avvenendo.